«Vuole una mano?» chiese Thorne, senza essere troppo sicuro di sapere a chi dei due si era rivolto.

La donna aveva due o tre grosse buste di plastica in ciascuna mano, ma era ben vestita. «È una cosa che mi sento spinta a fare» spiegò.

«Cosa?»

L'uomo, senza smettere di condurla verso la porta, disse: «Disturba gli altri clienti».

«Parlo loro di Gesù» precisò la donna. «E a loro non sembra dare fastidio.»

Thorne li seguì mentre si spostavano lentamente verso il marciapiede.

«Le persone vogliono solo fare la spesa» disse la guardia. «E tu li rallenti.»

«Devo parlare loro di Lui. È il mio lavoro.»

«Certo, e questo è il mio.»

«Lo so. Mi dispiace causarti problemi.»

«Cerca di non tornare per un po', va bene?»

Con un sorriso e un'alzata di spalle, la donna sollevò le borse e si allontanò lungo il marciapiede. Thorne restò a guardarla dall'ingresso.

La guardia incrociò il suo sguardo. «Immagino che ci siano delitti peggiori...»

Thorne non disse nulla.

A casa trovò un biglietto da parte di Hendricks, con cui l'amico lo avvisava che avrebbe passato la notte da Brendan. Thorne mise in forno la pizza surgelata che aveva comprato e mentre si cuoceva accese il televisore...

Cinque minuti dopo l'inizio del secondo tempo, Newcastle United e Southampton sembravano accontentarsi entrambe di un poco eccitante pareggio, e quando squillò il telefono Thorne sollevò la cornetta quasi con gratitudine.

«Tom...?»

«Non starai guardando la partita, papà?»

C'era stato un tempo, non troppo lontano, in cui loro due avrebbero discusso animatamente ogni mossa dei giocatori sullo schermo, ogni decisione dell'arbitro. Ma ormai quell'epoca sembrava passata per sempre.

«Sono troppo occupato» rispose il padre. «Hai in testa il tuo cappello pensatore?»

«Non adesso, papà, per favore...»

«Tutti i modi in cui puoi essere squalificato da una partita di cricket. Sono dieci. Ho già fatto una lista.»

Thorne puntò il telecomando e abbassò il volume del televisore. «Non puoi semplicemente leggermi la tua lista?»

«Non fare il superiore, stronzetto» disse suo padre, in un tono come se avesse appena detto una cosa affettuosa.

«Papà...»

«Va bene, allora dimmi almeno chi sono Horst Bucholz e Brad Dexter.»

«Chi? Mai sentiti.»

«Sono i due dei Magnifici sette che nessuno riesce mai a ricordare. Chi erano gli altri? Avanti, ti do un aiuto. Yul Brynner...»

A cinque minuti dal fischio finale il Southampton riuscì a segnare il gol della vittoria, proprio mentre il padre di Thorne cominciava a dare segni di stanchezza. A un certo punto Thorne si allontanò dal telefono per andare a controllare una risposta sull'enciclopedia, e quando tornò scoprì che suo padre non era più all'altro capo del filo. Attese un paio di minuti, poi capì che non sarebbe tornato. Forse era andato a letto.

Thorne riattaccò.

 

CAPITOLO 8

 

Una ragazza carina posò due menu sul tavolo.

«Solo due caffè, per favore» disse Thorne.

Holland fece una faccia delusa. Forse sperava in una ricca colazione, visto che erano spesati. Dopo che la cameriera si fu allontanata, disse: «Alcuni di questi piatti turchi sembrano interessanti».

Thorne si guardò intorno, e incrociò lo sguardo di un uomo dagli occhi neri seduto a un tavolo accanto alla porta. «Non è il ristorante dove andrei a mangiare regolarmente.»

Quando arrivarono i caffè, Thorne chiese: «Possiamo parlare con il signor Zarif?».

«Quale?» chiese la cameriera.

«Il capo. Vorremmo fare due chiacchiere con lui.»

Lei prese i menu e si allontanò senza una parola. Thorne la vide posarli sul bancone e poi scendere i gradini in fondo alla sala.

«Quella può dire addio alla sua mancia» commentò Holland.

La caffetteria si trovava a Green Lanes, di fronte a Finsbury Park, non troppo lontano dal punto in cui una volta Thorne era stato pestato da due fan dell'Arsenal. Era un locale piccolo, sei tavoli e un paio di separé, e le veneziane chiuse sulla porta e sulla vetrata lo rendevano piuttosto buio. L'unica parte ben illuminata era il soffitto di legno, che risplendeva del bagliore di dozzine di lanterne di vetro, di bronzo, di ceramica e di ottone, appese alle travi.

Holland bevve un sorso di caffè. «Forse il padrone è un appassionato di lampade.»

Thorne notò l'incongrua musica di sottofondo, e indicò lo stereo su una mensola dietro il banco. «E di Madonna» disse.

Si voltarono al rumore di passi pesanti che salivano le scale, e videro emergere un uomo alto e grosso, un po' ingobbito. Aveva sul ventre un grembiule a strisce bianche e blu, e si stava asciugando le mani in uno strofinaccio dall'aria non molto pulita.

«In cosa posso aiutarvi?»

Thorne tirò fuori il tesserino e fece le presentazioni. «Vorremmo scambiare due parole con il proprietario.»

L'uomo prese una sedia e si incuneò accanto a Holland. «Sono io. Mi chiamo Arkan Zarif.»

Holland gli spiegò che stavano indagando su una serie di omicidi, tra cui quello di Muslum Izzigil, e che avevano bisogno di fargli alcune domande riguardo ai suoi affari.

Zarif ascoltò con attenzione, annuendo continuamente. Quando Holland ebbe finito, attese alcuni secondi, poi sorrise. «Qui c'è bisogno di un vero caffè. Caffè turco.»

Holland alzò una mano per rifiutare, ma Zarif stava già urlando qualcosa in turco alla cameriera.

«Izzigil è stato assassinato in questa stessa strada, un po' più avanti» disse Holland.

«Terribile. Molti omicidi, da queste parti. Troppe armi.»

L'uomo aveva un forte accento mediterraneo, e quando parlava tutto il suo viso esprimeva concentrazione. Aveva gli occhi verdi e la pelle di un marrone molto chiaro, quasi arancione.

«Dovete parlare con mio figlio» disse, muovendo la bocca sotto i folti baffi.

«Riguardo all'omicidio di Izzigil?»

«Riguardo agli affari. Se ne occupano i miei figli. Sono in gamba. Siamo arrivati in Inghilterra solo due anni fa, e mi hanno già comprato questo locale. Che ne dite?» Sorrise, allargando le braccia.

«Quindi chi è il proprietario di questo locale?» chiese Holland. «E di tutte le altre attività?»

Zarif si chinò in avanti. «Vede, io ho tre figli» disse, sollevando tre dita. «Memet è il maggiore, poi ci sono Hassan e Tan.» Indicò con un cenno del capo la cameriera, che fumava dietro il banco. «E mia figlia Sema.»

Thorne colse un movimento con la coda dell'occhio, e si voltò mentre l'uomo che aveva notato prima si alzava per andarsene. Non gli sembrò che avesse pagato il conto. Zarif gli rivolse un cenno di saluto, poi continuò: «Quello che gestisce tutto è Memet. Le consegne e tutto il resto».

Holland scarabocchiò qualcosa sul suo taccuino, un'abitudine che non aveva mai perso. «Ma l'attività è registrata a nome suo» disse.

«Sì, questo locale è stato un regalo che i miei figli mi hanno fatto.» Zarif fece una pausa, mentre la figlia posava sul tavolo tre tazze di caffè fumante. La ragazza disse qualcosa in turco e Zarif annuì. «Mi piace cucinare, perciò passo il mio tempo in cucina. Mia moglie e Sema mi danno una mano, ma solo per sbucciare e affettare. Io cucino, io scelgo la carne...»

«Memet è qui?» chiese Thorne.

Zarif scosse la testa. «No, starà fuori tutto il giorno. Qui accanto c'è l'agenzia di taxi di Hassan, se volete parlare con lui. Di solito lui e Tan sono sempre lì che giocano a carte.» Bevve un sorso di caffè, e invitò con un sorriso Thorne e Holland a imitarlo. «È buono?» chiese poi.

«È forte» rispose Thorne. «I fratelli Zarif possiedono anche un certo numero di video shop, dico bene?»

Un altro sorriso orgoglioso. «Sei o sette, credo. Forse anche di più. Mi portano tutti i nuovi film che escono. Gli ultimi di James Bond...»

«Muslum Izzigil era il gestore di uno di quei negozi, a meno di quattrocento metri da qui. Lui e sua moglie sono stati uccisi a colpi di pistola pochi giorni fa.»

La figlia gli disse qualcosa ad alta voce da dietro il banco. Zarif sollevò entrambe le mani e rispose, poi si voltò mentre qualcuno apriva la porta, e l'irritazione scomparve istantaneamente dal suo viso. «Hassan...»

La porta si chiuse, e le lanterne tintinnarono sbattendo l'una contro l'altra. Due uomini attraversarono il locale a passi lunghi. Evidentemente quello che era uscito era andato a chiamarli. Uno dei due si fermò al banco e si mise a parlare a bassa voce con Sema. L'altro si piantò davanti a Thorne. «Mio padre non parla inglese molto bene» disse.

Thorne lo fissò. «Ci capiamo benissimo.»

Il figlio disse qualcosa in turco. Thorne lo interruppe con un gesto. «Cosa sta dicendo?» chiese al padre.

Zarif alzò gli occhi al cielo e si alzò. «Mi ha detto di tornare in cucina.»

«Un momento» intervenne Holland, irritato dalla direzione che stavano prendendo gli eventi.

Zarif si voltò: «Volete dell'altro caffè?».

«No, va bene così» disse Thorne, rispondendo a lui e a Holland allo stesso tempo. «Grazie.»

Arkan scomparve giù dalle scale, e Hassan prese il suo posto, facendo cenno alla sorella di portare un caffè anche a lui. Poi fissò Thorne e Holland con uno sguardo arrogante.

 

Rooker era steso sulla sua branda, e guardava Trisha alla tivù montata in alto sulla parete della cella. Se l'argomento era interessante, a volte guardava anche Kilroy. Ma di solito quello era un programma troppo educato, stile BBC. In Trisha invece gli ospiti non erano né troppo educati, né troppo intelligenti, e si poteva assistere a liti e imprecazioni.

L'argomento di quella mattina era eccellente: «Problemi nella vita intima».

C'era un idiota che blaterava di non essere mai stato capace di dire ai suoi figli quanto bene volesse loro, e una donna la quale non sopportava che il marito le mettesse un braccio intorno alle spalle quando erano per strada. Rooker consigliò loro mentalmente di passare un periodo in prigione, in intimità con pedofili e violentatori.

Lui aveva trascorso ormai più di un terzo della sua vita in carcere, ma non si era mai abituato alla compagnia di alcuni detenuti.

Aveva letto di come tutti gli animali abbiano bisogno di un territorio, di uno spazio solo per loro, altrimenti impazziscono.

E la stessa cosa succedeva anche in galera. In realtà la cosa davvero sorprendente era quanta gente riuscisse a non andare fuori di testa.

A Rooker la troppa vicinanza con altri esseri umani aveva sempre dato fastidio. A scuola, nello sport... Dopo le partite preferiva andare a casa sporco, piuttosto che fare la doccia insieme agli altri. E a volte si chiedeva se quel senso di distanza fosse stato il motivo per cui aveva finito per trovarsi nel suo specifico ramo di attività...

Sullo schermo, Trisha chiese alla donna se amava il marito, malgrado non sopportasse di essere toccata da lui in pubblico. «Sì, a volte lo amo» rispose lei. «Altre volte sento che potrei ucciderlo.»

Rooker rise insieme al pubblico in studio. La differenza tra lui e la maggior parte delle persone che pronunciavano frasi del genere, era che lui sapeva cosa voleva dire puntare una pistola alla testa di qualcuno, tagliargli la gola con un coltello, o versargli del liquido infiammabile sui capelli.

Il programma finì e lui uscì sul pianerottolo. Mentre scendeva al pianterreno sentì l'odore del pranzo. C'era sempre odore di cibo da qualche parte, in prigione.

«Questa volta ce la fai a uscire, Rooker, che ne pensi?» Era Alun Fisher, un detenuto che aveva già scontato tre anni dei cinque che gli erano stati inflitti per omicidio colposo a causa di guida pericolosa. Aveva alle spalle una storia di droghe e disturbi mentali, e passava quasi tutto il suo tempo tra l'infermeria e il reparto per Prigionieri Vulnerabili. «Stavolta devono dartela, per forza, la libertà sulla parola. Stai già contando i giorni, eh?»

Rooker rispose con un grugnito. Stavolta era davvero convinto di farcela. Avrebbero accettato l'accordo, visto quello che lui aveva da offrire. Avrebbe anche potuto prendere una stecca da bigliardo e spaccare la testa a Fisher, e probabilmente avrebbero mandato lo stesso una limousine della polizia a prenderlo.

«Fuori non avrai problemi» disse Fisher. «È quello che dicono tutti. Anzi, sarai ammirato, perché non hai mai parlato.»

Rooker si voltò a fissarlo.

Fisher annuì, mostrando i denti marci in un largo sorriso. «Non hai mai parlato, amico. Mai...»

 

«L'attività era del signor Izzigil. La nostra compagnia è proprietaria dell'edificio, e i locali sono affittati e gestiti da un'agenzia immobiliare. Io non conoscevo di persona Izzigil.» Hassan Zarif aveva lo stesso accento del padre, ma si esprimeva con notevole proprietà di linguaggio. Due anni a Londra, e già l'inglese era diventato quasi una madrelingua. Era chiaro che gli Zarif imparavano in fretta. «Mio fratello andava a fargli visita di tanto in tanto, credo, e a volte Izzigil gli regalava un paio di videocassette. Cartoni animati, per i bambini...»

«Capisco» disse Thorne.

«La Zarif Brothers è proprietaria dell'edificio, ma l'attività era del signor Izzigil.»

«L'ha già detto» disse Holland, senza riuscire a nascondere il sarcasmo.

Zarif piegò la testa di lato, e cominciò a far ruotare con un dito il portacenere vuoto. Doveva avere ventidue o ventitré anni, con una zazzera di capelli neri alti sulla testa. Il mento sporgente era accentuato dalla polo che portava sotto una giacca di pelle con collo di pelliccia. Sospirò, come se fossero loro due a costringerlo a dover ripetere cose ovvie. «Izzigil noleggiava videocassette...»

«Questo non sarebbe bastato per pagare la scuola del figlio» disse Thorne. «O l'Audi nuova che abbiamo trovato nel suo garage.»

Zarif scosse la testa, continuando a far girare il portacenere.

«Izzigil aveva investito trentamila sterline in una società di costruzioni» rincarò Holland.

«Alcune persone non hanno vizi...»

Thorne si chinò in avanti, spingendo da parte il portacenere con gentilezza. «Quindi lei non ha nessuna idea del perché qualcuno abbia voluto piantare una pallottola in testa a Izzigil e a sua moglie.»

Zarif schioccò la lingua, come se stesse cercando di decidere cosa rispondere.

Thorne sapeva che quell'incontro era importante, per loro e per Hassan. Il giovane sapeva di essere al sicuro, almeno per il momento. Di certo non voleva dare l'impressione di ostacolare le indagini, ma oltre a recitare la parte dell'uomo d'affari irreprensibile, doveva anche mandare un messaggio. Doveva far capire alla polizia che lui e i suoi fratelli erano gente a cui era meglio non dare fastidio.

«Forse si è scopato la ragazza dell'uomo sbagliato» disse alla fine.

La sorella, dietro il banco, scoppiò a ridere. Thorne le rivolse uno sguardo duro, ma poi si rese conto che la risata era dovuta a qualcosa che le aveva detto l'amico di Zarif. «Come abbiamo detto a suo padre, stiamo indagando su alcuni omicidi avvenuti di recente.»

«Londra è una città pericolosa.»

«Solo per alcuni» replicò Thorne.

Zarif sorrise, sollevando le mani. «Bene, io ho parecchio da fare, quindi se non c'è altro...»

Anche Thorne aveva un messaggio da mandare, e continuò a fare domande, ignorando il tentativo di Zarif di porre fine al colloquio.

«Ha qualche informazione che potrebbe aiutarci nelle indagini sulla morte di Mickey Clayton?»

Zarif scosse la testa.

«Su quella di Sean Anderson?»

«No.»

Le vittime dell'X-Man. «Anthony Wright? John Gildea?»

«Non so neppure di chi stia parlando.»

Thorne mise la mano in tasca e prese alcuni spiccioli, che posò sul tavolo. «Per il caffè» disse.

Fuori pioveva. Si diressero a passo svelto verso la BMW di Thorne.

«Mi sembra che abbiamo perso un sacco di tempo a fare domande e ad ascoltare risposte che non servono a niente» disse Holland.

Thorne guardò gli alberi scheletrici del parco. «Come sempre...»

«Che pezzo di merda» sbottò Holland. «Cartoni animati per i bambini? Secondo me sono loro che gestiscono tutto. Rifornimenti, consegne e tutto il resto. E oltre a quello che guadagnano con la pirateria, sono convinto che si prendessero anche una congrua percentuale dei guadagni di Izzigil.»

Finsbury Park non era la zona verde preferita di Thorne. Ma aveva ascoltato diversi concerti lì, nel corso degli anni. I Fleadh, i Madstock (a quello ci era andato con una pacifista che gli piaceva parecchio)... Quando i Sex Pistols si erano riuniti per suonare lì, lui viveva ancora a Híghbury con la sua ex moglie. E dal loro giardino sentiva ogni parola delle canzoni...

«Anche quel caffè faceva schifo» disse Holland. «Sapeva di spazzatura.»

Thorne rise. «È un gusto che si acquista con l'andar del tempo.»

«Le va una pinta, più tardi? All'Oak, o se preferisce possiamo andare in centro...»

«Sophie ti ha dato la libera uscita?»

«Ormai è più contenta quando non mi vede. Le do sui nervi, e la capisco. Do sui nervi anche a me stesso.»

Erano arrivati alla macchina. Thorne aprì la portiera dalla sua parte, salì e aprì quella del passeggero. «Possiamo fare un'altra volta? Stasera ho già un impegno.»

Holland salì in macchina. La pioggia gli aveva lasciato macchie scure sulle spalle della giacca e sulle cosce dei pantaloni. Il completo cominciava ad avere un aspetto consunto, e Thorne sapeva che presto Holland sarebbe andato da Marks & Spencer a comprarne un altro esattamente uguale.

«Un appuntamento galante?» chiese Holland.

Il motore si accese al primo colpo, e Thorne sorrise. «Neanche lontanamente.»

 

CAPITOLO 9

 

Leicester Square di notte era a pari merito con la M25 nelle ore di punta, nella lista dei posti che Thorne preferiva evitare. I musicisti ambulanti e la prima di qualche film di serie B non facevano una grande differenza. Per ogni gruppo di turisti sorridenti c'era qualcuno appoggiato a un muro, con intenti più oscuri. Per ogni famiglia americana o viaggiatore scandinavo c'era un rapinatore, un borsaiolo, o semplicemente un idiota ansioso di attaccare briga. E le insegne luminose sembravano solo attirare maggiormente gli avvoltoi.

«Compiango gli agenti che sono di turno qui, la sera» disse Chamberlain.

La minaccia era palpabile nell'aria, appena coperta dall'odore di urina e di hamburger a poco prezzo.

«L'unica cosa buona di questo posto,» disse Thorne «è l'affitto che puoi ricavarne a Monopoli.»

Le sette meno un quarto di martedì sera, e c'era già in giro una quantità di gente. A parte quelli impegnati a scattare foto o a rubare macchine fotografiche, c'erano anche tutti quelli che attraversavano la piazza diretti in qualche posto più piacevole. A ovest, verso Piccadilly e Regent Street. A sud, verso i teatri dello Strand. A est, verso Covent Garden, dove gli spettacoli di strada erano più artistici, e gli hamburger erano tutto meno che economici.

Thorne e Chamberlain erano diretti verso una sala giochi vivacemente illuminata, esattamente al confine tra Chinatown e Soho. Superarono una serie di vetrine che esponevano polli glassati al miele e seppie dall'aria tutt'altro che fresca.

«Sei sicuro che lo troveremo lì?» chiese Chamberlain.

Thorne la guidò a sinistra, evitando la fila davanti al Capital Club. «Billy è sotto sorveglianza da molto prima di questa storia» disse. «Conosciamo tutte le sue abitudini.»

Chamberlain affrettò il passo per tenergli dietro. «Se Ryan è quello che penso io, non mi sorprenderebbe scoprire che anche lui sia ben informato sul conto della polizia.»

«Sono felice che tu sia così brava a tirarmi su il morale...»

Entrarono in uno Starbucks di fronte alla sala giochi. Non dovettero aspettare molto prima di vedere Ryan. Una delle massicce porte a vetri si aprì, e lui scese i pochi gradini che portavano in strada. Era con Marcus Moloney. A pochi passi di distanza seguivano due facce patibolari che evidentemente erano le sue guardie del corpo.

Appena vide Thorne avvicinarsi, robusto e con le mani in tasca, Ryan fece un cenno a uno dei gorilla. Poi lo riconobbe e si rilassò. «Cosa c'è?»

Thorne indicò la sala giochi con un cenno del capo. Era affollata di adolescenti che facevano la fila per lasciare i loro soldi nelle macchinette. «Mi annoiavo, e mi piacciono i videogiochi dove si spara ai cattivi. Questo è uno dei suoi locali, vero?»

Moloney controllò la strada in entrambe le direzioni. «Vuole uno sconto, Thorne?»

«Ah, è così che corrompete i poliziotti, adesso? Con un po' di partite gratis a Streetfighter?»

Ryan aveva riconosciuto Thorne, ma non la donna che era con lui. «Cos'è, la festa della nonna? Credevo che i poliziotti dovessero avere un aspetto giovanile, di questi tempi.»

«Sei proprio uno spiritoso del cazzo, Ryan» disse Chamberlain.

Allora Ryan la riconobbe, e strinse i denti, evidentemente ricordando che cosa era successo quando le loro strade si erano incrociate.

«Sembrava un po' nervoso, un attimo fa, signor Ryan.» Indicò le guardie del corpo. «E anche questi due non hanno l'aria tranquilla. Ha paura di quelli che hanno fatto fuori Mickey Clayton e gli altri?»

Ryan non disse nulla, e fu Moloney a rispondere: «Che ci provino...».

«Chissà cosa troverei,» disse Thorne «se dovessi mettervi contro un muro e perquisirvi.»

«Niente che valga la pena» rispose Moloney.

«Ma non sarebbe una pena. Sarebbe un piacere.»

Moloney sospirò e gli passò davanti, allontanandosi di alcuni passi.

Thorne lo vide estrarre un cellulare e comporre un numero. Tornò a voltarsi verso Ryan. «Si ricorda di Carol?» gli chiese. «Era l'ispettore Manley, quando vi siete conosciuti. Il caso di Jessica Clarke.»

«Non credo che se ne ricordi» intervenne Chamberlain. «La ragazza a cui qualcuno diede fuoco, tanto tempo fa? Sono cose che sfuggono di mente, si capisce.»

«Per quel delitto fu condannato Gordon Rooker, se non sbaglio. Parlavamo proprio di lui qualche giorno fa, vero, signor Ryan?»

«Le dirò la stessa cosa che le ho detto allora» disse Ryan. «Da molto tempo non avevo il dispiacere di pensare a quel pezzo di merda.»

«Strano, perché lui invece pensa molto a lei. Mi ha anche chiesto di portarle i suoi saluti.»

Ryan strinse la bocca e socchiuse gli occhi. E non doveva essere solo per colpa del vento che gli frustava la faccia. Poi assunse un'espressione sollevata, appena udì il rumore di un motore. Un pulmino nero svoltò l'angolo a tutta velocità e venne a fermarsi stridendo accanto a loro.

Dalla portiera già aperta scese Stephen Ryan. Thorne gli rivolse un gesto di saluto e ricevette in risposta uno sguardo freddo.

«Dove cazzo eri?» disse il padre, salendo a bordo.

«Scusa...»

Stephen risalì sul pulmino, seguito dai due gorilla. Mentre anche Moloney si apprestava a salire, l'autista abbassò il finestrino, e Thorne riconobbe l'"impiegato" che aveva visto nell'ufficio di Ryan.

«Scusa, Marcus, il traffico è intasato in tutto il West End.»

Moloney lo ignorò. Con un piede già sul pulmino, si voltò verso Thorne. «Stia attento a non farsi sparare» disse.

Thorne aprì la bocca, ma prima che potesse dire qualcosa, Moloney aggiunse: «Ai videogiochi, intendo». Poi chiuse la portiera e il furgone partì a razzo.

«Che significava tutta quella storia di Rooker che invia i suoi saluti?» chiese subito Chamberlain.

«Un po' di cortesia non costa nulla» rispose Thorne, fissando il pulmino che si allontanava. «A che ora parte il tuo treno?»

«L'ultimo è alle undici meno cinque.»

«Allora andiamo a mangiare qualcosa.»

 

Marcus Moloney ingollò quasi metà della sua Guinness in un unico lungo sorso. Appena posò il bicchiere sul bancone, l'uomo seduto sullo sgabello accanto a lui disse: «Giornata dura?».

Moloney rispose con un grugnito. La giornata non era stata particolarmente dura, ma le ultime ore sì, e molto. L'incontro davanti alla sala giochi con Thorne e la donna aveva fatto agitare molto il capo. Come se loro non avessero già abbastanza guai, con tutto quello che stava succedendo. Per fortuna ora Ryan era a casa, a sfogarsi con la moglie. Ci avrebbe pensato lei a massaggiargli l'ego e tutto il resto, ben felice che Ryan non avesse ancora scoperto la sua tresca con il giardiniere che se la scopava tre volte alla settimana.

Moloney bevve un altro sorso. Aveva il cercapersone acceso, come sempre, ma sperava proprio che nelle prossime ore non lo avrebbe cercato nessuno. Aveva bisogno di rilassarsi.

Aveva già conosciuto poliziotti come Thorne. Non che fossero necessariamente incorruttibili: ognuno ha il suo prezzo, una verità che lui vedeva riaffermata tutti i giorni. Ma quelli come Thorne, se anche accettavano il denaro, prima o poi combinavano un casino, perché si sentivano sporchi e si odiavano. Thorne doveva essere controllato, perché di certo avrebbe causato guai.

Moloney vuotò il bicchiere, attirò l'attenzione del barista e chiese un'altra Guinness. L'uomo seduto accanto a lui si alzò, chiedendo dov'era il bagno. Moloney glielo indicò, domandandogli se voleva un'altra birra. L'offerta fu accettata con piacere.

Mentre aspettava le birre, Moloney si guardò intorno nel bar affollato. Veniva lì a bere abbastanza spesso, e due o tre clienti regolari, dall'altra parte della sala, sollevarono il bicchiere in segno di saluto.

Molti volevano conoscerlo, ma nessuno lo conosceva davvero,e questo cominciava a pesargli. Beveva più del solito, scattava alla minima contrarietà, sul lavoro e a casa. Tutta colpa di quella guerra. Dopo gli ultimi omicidi era arrivato un momento di calma. La prossima mossa, del clan Zarif e di Ryan, sarebbe stata quella decisiva.

L'uomo tornò dal bagno, si sedette davanti alla sua pinta, e Moloney sollevò il bicchiere di Guinness: «Salute» disse.

 

Thorne e Chamberlain avevano bevuto una bottiglia e mezza di vino rosso durante la cena, e forse fu questo il motivo della reazione esagerata di Thorne quando entrò in casa. L'odore lo investì appena aprì la porta. «Cristo, Phil! Non in casa mia...» «È solo erba, non mi sto facendo una pera.» «Qualunque cosa sia, falla a casa di Brendan.» Hendricks dovette fare uno sforzo per non scoppiare a ridere. «Perché non ti prendi un giorno libero? Mi sa che ne hai bisogno.»

Thorne si diresse in cucina. «Mi piacerebbe...» «Perché non mi prepari un toast, già che sei in cucina?» gli urlò Hendricks.

«Cosa?»

«Sto scherzando!» A quel punto Hendricks non poté più trattenere le risate.

A Thorne più che il fumo in sé, davano fastidio i comportamenti che provocava. Anche a scuola, quando aveva provato a farsi qualche canna con gli amici, gli sembrava ridicolo dover stare lì a passarsi lo spinello e a parlare di quanto era buona la roba. Le droghe che circolavano adesso nelle scuole erano ben più pericolose, ma non c'era più tutto quel contorno. I ragazzi ingoiavano una pillola e via.

Poi c'era il fatto che la sua ex moglie amava fumare una canna di tanto in tanto, e alla fine si era scoperto che l'erba gliela forniva l'insegnante di scrittura creativa con cui lei lo tradiva. Thorne ricordava l'odore, il giorno che li aveva trovati a letto insieme. Ancora oggi si chiedeva perché non avesse preso a pugni quello stronzetto scheletrico, o non lo avesse segnalato alla Narcotici.

Entrò in soggiorno con in mano una tazza di tè. Hendricks gli sorrise scuotendo la testa.

Ascoltarono in silenzio il primo album di Gram Parsons. A un tratto Hendricks emerse dalla sonnolenza e annunciò: «La merda che dobbiamo sopportare è il prezzo che paghiamo per essere umani».

«Certo» disse Thorne, bevendo un sorso di tè.

«La differenza tra noi e i cani, i delfini, o qualunque altro animale,» continuò Hendricks, in un tono che sembrava quasi una parodia dei discorsi da stonato «è che siamo gli unici a possedere l'immaginazione.»

«Per quello che ne sappiamo...» disse Thorne.

«Sì, per quello che ne sappiamo. E tutte le cose più brutte, gli omicidi, le torture, iniziano con un'immagine nella testa di qualcuno. Tutto deve essere prima immaginato.»

Thorne annuì. Quello che Hendricks stava dicendo aveva senso, anche se per immaginare alcuni degli orrori che entrambi avevano visto ci voleva un cervello veramente malato. «E allora?»

«Allora... la medaglia ha due facce. Abbiamo persone che immaginano e creano grandi opere d'arte, libri, musiche e giardini, ma la stessa immaginazione può anche creare l'Olocausto, o l'idea di dare fuoco a una ragazzina...»

«Basta così, Phil, per favore...»

«Se vuoi una cosa, devi prendere anche l'altra.»

Ci fu un lungo silenzio. Alla fine Hendricks si chinò in avanti per schiacciare nel portacenere ciò che restava della canna, e concluse: «Se vuoi Shakespeare, hai anche Shipman».

Thorne per qualche strana ragione trovò divertente quel concetto. «Come dire che i serial killer sono il prezzo che dobbiamo pagare per la musica country...»

Sul volto di Hendricks si allargò un ampio sorriso. «Questadisse «è una scelta davvero difficile...»

 

Moloney aveva deciso che valeva la pena di prendersi una bella sbornia. Quando il barista annunciò che stava chiudendo, uscì nel parcheggio con il suo nuovo amico, pieno di Guinness e di presunzione. «Non ti preoccupare, conosco diversi posti dove ci daranno ancora da bere» disse. «Anzi,» precisò, passando un braccio intorno alle spalle dell'uomo «ne conosco moltissimi.»

L'uomo gli domandò se non lo preoccupava l'idea che lo fermassero al volante ubriaco. Moloney, aprendo la portiera della Jaguar, rispose: «Mi hanno già fermato diverse volte, ma non è mai stato un problema...».

«Sul serio?»

«In genere tendono a chiudere un occhio.»

«È piacevole avere una certa influenza» commentò il suo amico.

«Più che piacevole. Sali...»

Attraversarono Islington, diretti verso la City. Il traffico era scarso, e Moloney si divertiva ad accelerare ogni volta che ne aveva l'opportunità. «Nel posto dove siamo diretti,» disse «dietro il Barbican, offrono anche altri servizi. Per qualche sterlina in più possiamo farci una bella scopata. Ti va?»

Mentre la Jaguar si dirigeva a una velocità eccessiva verso la rotonda di Old Street, l'uomo seduto accanto a Moloney estrasse una Glock e gliela puntò contro il fianco.

«Gira a sinistra e prendi verso Bethnal Green...»

«Cosa? Ma che cazzo...»

L'altro gli piantò la pistola nel fianco con tanta forza da incrinargli una costola, mandandolo a sbattere contro il finestrino. Moloney urlò e dovette appellarsi a tutto ciò che restava dei suoi riflessi per mantenere il controllo dell'auto.

Seguì le istruzioni, cercando freneticamente una via d'uscita. Sapeva che non sarebbe riuscito a prendere la sua pistola. Sapeva di non aver detto a nessuno dove avrebbe trascorso la serata. E ora sapeva anche di non essere coraggioso. Ogni respiro gli costava uno sforzo, ogni tentativo di parlare era zittito da un colpo con la canna della pistola contro la costola rotta.

Si lasciarono alle spalle il traffico e le luci. Obbediente, Moloney lasciò la strada principale e s'inoltrò in una stradina sterrata. Attraversarono un ponte sopra un canale nero come olio di motore.

«Fermati qui.»

Appena l'auto si fermò, l'uomo gli premette la pistola contro l'orecchio, poi si chinò sul cruscotto e spense i fari.

Moloney chiuse gli occhi. «Ti prego...»

Sentì la mano dell'uomo che si infilava sotto la giacca e gli prendeva la pistola. Aprì gli occhi quando sentì che l'altro scendeva dalla macchina, e un attimo dopo lo udì bussare al finestrino dalla sua parte con la canna della pistola, tenendosi defilato rispetto alla portiera.

«Fai il giro e vai a sederti dall'altra parte. Muoviti.»

Moloney obbedì, lanciando un gemito di dolore mentre si sollevava per passare sopra il cambio. «Perché?»

«Perché non sono mancino» disse l'uomo, salendo al posto di guida e richiudendo la portiera.

Allora Moloney sentì le viscere che cedevano, e tutto cominciò ad accadere molto in fretta. Si lasciò voltare passivamente a pancia in giù contro il sedile, sempre con la pistola puntata all'orecchio. L'uomo armeggiò in basso con una mano, e lo schienale del sedile andò giù fino in fondo. La mano allora cominciò a tirare su la giacca e la camicia di Moloney, scoprendogli la schiena.

«Stai facendo un errore. Un fottutissimo errore...» disse Moloney.

Poi restò senza fiato, mentre l'uomo con la pistola iniziava a tagliare.

 

Thorne si svegliò di soprassalto, disorientato. Udiva una musica, e vedeva Hendricks in piedi accanto al suo letto, in mutande, che gli tendeva un oggetto dicendo parole che lui non riusciva a sentire.

Tirandosi a sedere, Thorne si rese conto di essersi addormentato con il Walkman acceso. Lo spense, sbatté le palpebre e gemette: «Che ora è?».

«Le tre. È Holland, per te.»

Thorne allungò la mano verso il cellulare. Con le cuffie in testa non l'aveva sentito suonare, ma Hendricks dal soggiorno sì.

«Grazie» disse.

Hendricks uscì dalla stanza con un grugnito.

«Dave?»

Holland cominciò a parlare, ma Thorne sapeva già che si trattava di un altro cadavere.

Holland doveva solo dirgli a quale fazione apparteneva.

 

Thorne non aveva modo di saperlo, ma mentre guidava la BMW verso la scena del delitto, stava seguendo quasi esattamente la stessa rotta che aveva seguito Moloney poche ore prima. Lungo City Road e oltre, dopo Shoreditch e in quella che, quarant'anni prima, era terra vergine. Allora le strade di Londra erano più sicure, o almeno così dicevano molti.

Marcus Moloney probabilmente sarebbe stato d'accordo con loro.

La macchina si trovava in un terreno incolto a poche centinaia di metri da Roman Road. Qui il Grand Union Canal correva lungo una strada in disuso chiamata Meath Gardens, e la linea ferroviaria divideva Globe Town da Mile End.

Un uomo che dormiva su una barca ormeggiata poco più a monte aveva udito gli spari, e cinque minuti dopo era andato a vedere cosa succedeva, portandosi dietro il cane.

Thorne scese dalla BMW e fece un giro di ricognizione intorno alla scena del delitto.

La Jaguar grigio argento era illuminata a giorno da luci potenti sistemate su treppiedi. Aveva le portiere aperte, ma Thorne non sapeva se erano state trovate già così.

«Signore...»

Thorne rispose con un cenno del capo al saluto di un agente dell'SO7 che camminava in direzione opposta alla sua. Avvicinandosi di più all'auto, scorse il corpo sul sedile anteriore. Attraverso il lunotto posteriore vedeva anche il cappuccio bianco di un uomo della Scientifica. Individuò Holland e Stone chini dietro la fiancata dell'auto. Holland sollevò la testa e gli lanciò uno sguardo poco promettente. Altri agenti della Scientifica erano al lavoro per rilevare le impronte sul terreno e sui sedili posteriori. C'erano fotografi e cameramen, e un gruppetto di funzionari che parlavano tra loro, rivolti verso il canale.

Le luci mostravano ogni graffio, ogni segno, ogni pezzetto per quanto minuscolo di materia cerebrale attaccata ai vetri.

Thorne prese una tuta sterile da un agente in uniforme che le distribuiva come se fossero regali. «Dave...»

Holland fece per avvicinarsi, poi si fermò e indicò con un cenno del capo il gruppo di funzionari, che ora stavano tornando verso la macchina. Tre di loro erano in giacca e cravatta: Brigstocke, Tughan e un responsabile per la stampa di nome Munteen. Ma fu l'uomo in uniforme che lasciò Thorne a bocca aperta. Non ricordava quando gli era successo un'altra volta di trovare il sovrintendente Trevor Jesmond sulla scena di un delitto.

Jesmond si strinse nel soprabito blu. «Tom...»

«Signore.»

Seguì un silenzio breve ma antipatico, che Thorne ruppe indicando l'auto. «Il clan degli Zarif ha davvero alzato la posta, direi. Marcus Moloney è un personaggio di una levatura molto diversa da quella di Mickey Clayton e delle altre vittime. Da ora in avanti la guerra sarà molto più dura.»

Thorne fissò Russell Brigstocke, e ricevette da lui lo stesso sguardo che aveva ricevuto da Holland.

«La posta si è definitivamente alzata, Tom» disse Jesmond. «Ma non per il motivo che credi tu.»

«In che senso?» Thorne guardò Tughan, il quale studiava con attenzione la ghiaia della strada.

Jesmond, con l'aria più sconfitta che Thorne ricordava di avergli mai visto, disse: «Marcus Moloney era un agente di polizia sotto copertura».

 

CAPITOLO 10

 

Thorne lasciò la scena dell'omicidio all'alba, quando le strade cominciavano appena a mostrare segni di vita. Tornò a casa, si fece una doccia e mangiò qualcosa. Poi uscì, salì in macchina e partì alla volta di Hendon.

Non capiva se il senso di pesantezza che sentiva era dovuto alla mancanza di sonno, al vino della sera prima o al ricordo dell'atmosfera su quella stradina accanto al canale. Dopo aver saputo la verità su Moloney, il movimento intorno alla Jaguar si era fatto un po' più delicato. Ai cadaveri veniva sempre accordato un certo rispetto, ma la misura variava. Un gangster era sempre trattato dalla polizia in modo diverso da un collega poliziotto.

Thorne detestava quel modo di fare, ma lo capiva. La vita di un poliziotto non valeva né più né meno di quella di un medico o di un commesso di negozio. Ma non era ai medici o ai commessi che toccava andare a prendere i cadaveri, informare le famiglie e cercare di catturare i responsabili. Sì, a volte la rabbia dei poliziotti quando moriva un collega dava fastidio a Thorne, i discorsi dei superiori suonavano falsi, ma non c'era nulla di falso nel sollievo che ciascuno provava per essere ancora vivo e nella paura che la volta successiva potesse toccare a lui.

Era presto, ma sapeva che Carol Chamberlain doveva essere già in piedi. La chiamò appena entrò nella Circolare Nord, per dirle di Moloney.

«Be', devo dire che era più che convincente, nella parte del gangster.»

«Già» ammise Thorne.

Moloney era senz'altro in gamba, eppure gli seccava non aver avuto neppure il minimo sospetto. L'istinto ancora una volta si era dimostrato inaffidabile. Era qualcosa che andava e veniva, inesplicabile come il blocco dello scrittore, o l'improvvisa incapacità di un centravanti di segnare un gol.

A volte, Thorne guardava un assassino negli occhi e aveva la sensazione di sapere tutto ciò che gli passava per la mente. O credeva di poter individuare un delinquente dal modo in cui fumava una sigaretta. Altre volte non lo avrebbe riconosciuto come tale neppure se lo avesse visto con un passamontagna in testa e una pistola in mano.

«Come mai tu non sapevi nulla di Moloney?» chiese Chamberlain.

Thorne non aveva una risposta, e quando chiuse la comunicazione, entrando nel parcheggio di Becke House, era abbastanza seccato al riguardo. Perché Tughan non gliel'aveva detto?

Era una buona domanda.

Ma quando la fece al diretto interessato, dopo essere entrato nell'ufficio di Brigstocke senza bussare, la risposta non fu molto soddisfacente. «Si pensava che non fosse necessario, o prudente...»

«Parla in una lingua comprensibile, per favore» disse Thorne. Si rivolse a Brigstocke. «Russell, tu lo sapevi?»

Brigstocke annuì. «La notizia non doveva trapelare al di sotto del livello di ispettore capo. Era stato deciso così.»

Tughan si sedette. Sulla sua scrivania c'era una copia del Manuale per le indagini sugli omicidi. «Il ruolo di Moloney come agente infiltrato doveva essere rivelato solo a chi aveva assoluta necessità di saperlo» disse, come se avesse appena letto quella frase nel libro.

Thorne sospirò, appoggiandosi contro la porta. «Aveva moglie? Figli?»

Brigstocke fece un cenno affermativo.

«Qualcuno ha detto loro il modo orribile in cui è stato ucciso, oppure anche quello va rivelato solo a chi ha assoluta necessità di saperlo?»

«Piantala, Thorne» disse Tughan.

«Comunque ora si spiegano tante cose» continuò Thorne. «Mi chiedevo come facessi a sapere che l'omicidio degli Izzigil era stato compiuto da Ryan, o da dove proveniva la lettera di minaccia...»

Tughan sbatté un fascio di carte sulla scrivania. «Perché devi sempre essere al centro di tutto, Thorne? Un poliziotto è stato ucciso. In modo orribile, come hai appena detto. Il fatto che a te non fosse stato comunicato che si trattava di un poliziotto non mi sembra la cosa più importante, in questo momento.»

L'espressione sul viso di Brigstocke diceva che anche lui la pensava così. E un attimo dopo anche Thorne capì che quella era la verità. Con un leggero senso di vergogna per il sarcasmo di un attimo prima, avvicinò una sedia alla scrivania e ci si lasciò cadere sopra. Fu sollevato vedendo che Tughan non obiettava.

«Da quanto tempo Moloney era con Ryan?»

«Circa due anni» rispose Tughan.

Thorne restò a bocca aperta. «Ha fatto carriera in fretta.»

Tughan annuì. «Era in gamba. A Billy piaceva, e Stephen lo trattava come un fratello maggiore.»

«Stava facendo un ottimo lavoro» disse Brigstocke.

«Ma ora che è morto,» intervenne Tughan «è tutto inutile.»

«Un momento. In due anni deve pur aver raccolto qualche prova contro Ryan.»

«Moltissime prove, ma tutte basate sulla sua testimonianza. Cose che aveva sentito, cose che aveva visto. Avrebbe dovuto testimoniare al processo, e ora che è morto non abbiamo praticamente più nulla che possa reggere in tribunale.»

«E l'omicidio degli Izzigil? Doveva pur saperne qualcosa...»

Tughan si grattò il mento rasato di fresco. «L'ha saputo dopo. Sapeva che si preparava qualcosa, ma non è stato in grado di dirci in anticipo chi era l'obiettivo e a chi era stato affidato il compito.»

«Ryan si fidava di Moloney» disse Brigstocke. «Ma si fida anche di altri, per i lavori sporchi.»

«Stephen?» suggerì Thorne.

«Sì» rispose Tughan. «E qualcun altro.»

Thorne pensò alla situazione difficile in cui doveva essersi venuto a trovare l'agente Marcus Moloney, dopo l'inizio di quegli omicidi. Sicuramente avrebbe voluto conoscere i nomi delle persone che Ryan voleva far uccidere, per rivelarli ai colleghi dell'SO7. Ma sapeva che cercando di procurarsi quelle informazioni rischiava di farsi scoprire e di rovinare tutto. E senz'altro, dopo che Muslum e Hanya Izzigil erano stati uccisi, doveva essersi sentito in parte responsabile.

«Possiamo ancora incastrare Ryan» disse Thorne.

Gli altri due lo guardarono con rinnovato interesse. Thorne sapeva che ormai era arrivato il momento di metterli al corrente, e lo aveva detto anche a Chamberlain, al telefono. Ma non immaginava che le informazioni in suo possesso ora avrebbero acquistato tanta importanza.

«Come?» chiese Tughan.

«Ho un testimone.»

Tughan sorrise. «Questo è il momento in cui stai per parlarci di Gordon Rooker?»

Thorne restò a bocca aperta. «Cosa?»

«Devi proprio pensare che io sia un fottuto idiota, Thorne. Hai lanciato quel nome a Billy Ryan, e poi hai liquidato la mia domanda al riguardo dicendo: "Una pista sbagliata".»

«Aspetta un attimo...»

«Non è stato difficile scoprire i tuoi viaggetti al carcere di Park Royal, in compagnia dell'ex ispettrice capo Chamberlain.»

Thorne gettò un'occhiata a Brigstocke, e si rese conto che anche lui sapeva tutto.

«Non aveva nulla a che fare con questo caso» si difese. «Non c'era un collegamento...»

«Ma ora c'è, dico bene?»

«È quello che sto cercando di dirvi.»

«Questo è il motivo per cui hai aspettato Billy Ryan fuori da una delle sue sale giochi, ieri sera?» Tughan sembrava divertirsi davanti alla confusione di Thorne. «L'ho saputo praticamente in diretta, proprio mentre accadeva.»

Thorne ricordò Moloney che si allontanava e parlava al cellulare. Lui aveva pensato che stesse chiamando quelli nel pulmino...

«Bene, ti ascoltiamo...»

Thorne raccontò loro l'intera storia, sia vecchia sia nuova. Disse loro delle telefonate ricevute da Chamberlain, delle sue visite a Gordon Rooker, di Jessica Clarke e delle rivelazioni di Rooker riguardo a quel delitto. Infine disse loro dell'offerta di Rooker.

«Perché ha aspettato vent'anni?» chiese Brigstocke.

Fu la prima di una serie di domande, ovvie e inevitabili, che Thorne aveva posto a sua volta a Rooker. Diede loro le risposte che aveva ricevuto, cercando di spiegare perché Rooker avesse confessato un delitto mostruoso che non aveva commesso. Perché uno come lui aveva più possibilità di sopravvivere in galera che fuori. E perché finalmente aveva deciso che era meglio disfarsi di Billy Ryan prima di uscire.

«Quindi noi lo tiriamo fuori di prigione, gli offriamo protezione, e lui in cambio è disposto a testimoniare contro Billy Ryan per il tentato omicidio di Jessica Clarke?»

«Non solo. Rooker sa una quantità di cose, ed è disposto a raccontarle tutte, a noi e ai giudici.»

Fuori stava iniziando a piovere. Gocce pesanti, ma ancora non troppo fitte. Per alcuni momenti il ticchettio della pioggia contro i vetri fu l'unico rumore dentro la stanza.

«Chi è l'autore di queste telefonate all'ex ispettrice capo Chamberlain?» chiese Tughan, in tono scettico. «Chi le ha fatto una scritta infuocata sul cofano della macchina? Supponiamo che si tratti del vero autore del delitto Clarke, giusto?»

«Questo non lo so» ammise Thorne.

«Non ti sembra una coincidenza troppo precisa?»

«Rooker nega di saperne qualcosa.»

«Non mi dire...» Tughan guardò Brigstocke. «Russell?»

«Un complice di Rooker? Un ex compagno di cella, con cui lui magari è restato in contatto?»

«Avremo tempo per controllare tutto questo» disse Thorne, cercando di dominare l'impazienza. «Il fatto è che Billy Ryan è il responsabile di ciò che è accaduto a quella ragazza, e noi abbiamo la possibilità di inchiodarlo per questo. È una cosa che vale la pena considerare...» Thorne si fermò appena in tempo, prima di aggiungere: Dobbiamo farlo per Marcus Moloney.

La pioggia ora batteva un ritmo serrato conto i vetri.

«Naturalmente, la cosa andrà sottoposta alla considerazione di persone ben più in alto di me» disse Tughan. «Più in alto anche di Jesmond.» Fece un sospiro e allungò una mano verso il telefono.

Mentre lasciavano l'ufficio, Thorne stava quasi per chiedere a Brigstocke perché non gli aveva detto nulla di tutto ciò che sapeva. Forse era il caso di fare una chiacchierata con lui per capire da che parte stava. Forse però quello non era il momento giusto.

 

All'ora di pranzo, al Royal Oak, l'umore della squadra era migliorato. Ma probabilmente dipendeva solo dalla birra.

Quello era il pub dove andavano regolarmente, perché era il più vicino. Nessuno ricordava un'epoca in cui non fosse stato pieno di poliziotti, perciò nessuno poteva azzardare ipotesi sulla mancanza di atmosfera del locale. Non che Trevor, il proprietario, non ci avesse provato. Il banco del bar era decorato da polaroid di alcune esponenti della clientela femminile, che sollevavano la maglietta rivelando reggiseni o seni nudi. In un altro punto aveva scelto un tema spagnoleggiante, con finto ferro battuto e sombreri polverosi. Inoltre, due giorni alla settimana tagliava a pezzetti un pasticcio di maiale e delle uova sode, e le chiamava tapas.

Tughan, Kitson e Brigstocke non erano presenti, ma c'erano quasi tutti gli altri. Fecero un brindisi alla memoria di Marcus Moloney. La sua morte aveva avuto l'effetto di alleviare la tensione tra l'Unità per i Reati Gravi e i loro omologhi dell'SO7. Adesso si sentivano tutti uniti nella decisione di assicurare alla giustizia i responsabili.

Thorne era contento di quello sviluppo, e sperava che le crepe non riapparissero troppo presto. Spinse via il piatto semivuoto di pollo e patatine, e fece spazio a Holland che arrivava con un vassoio di bevande. A quel punto tutti erano ormai passati alla roba leggera: Coca-Cola, acqua minerale o succo d'arancia. Thorne, che si sentiva un po' appannato, aveva chiesto una lattina di Red Bull. Holland si sedette accanto a lui. «Sei poi andato a bere, ieri sera?» chiese Thorne, riferendosi all'invito della sera prima. «Avevi l'aria di volerti prendere una bella sbronza.»

«Ho bevuto solo un paio di birre qui, con Andy» indicò dall'altro lato del tavolo, dove Andy Stone, Sam Karim e un'agente donna dell'SO7 erano immersi in una fitta conversazione. «Ed è stato un bene, considerando l'ora in cui è arrivata la chiamata.»

«Neanch'io ero del tutto sobrio alle quattro di stamattina» disse Thorne. «E anche quello è stato un bene, considerando ciò che abbiamo trovato.»

«Comunque ieri sera ho scoperto una cosa interessante» disse Holland, sorridendo. «Sa che Andy Stone ha un certo successo con le donne...»

Thorne seguì lo sguardo di Holland: Stone e la poliziotta sembravano trovarsi piuttosto bene insieme. «Sì...»

«Mi ha svelato uno dei suoi trucchi. Aveva bevuto un po' più di me...»

«Sono tutto orecchie» disse Thorne.

«Tiene in macchina un libro di filosofia.» Thorne spalancò gli occhi, e Holland rise. «Sul serio. Sul sedile del passeggero, o vicino alle cassette... La ragazza sale, lo vede e dice: "Oh, che libro è?". Lo prende, lo guarda, e si convince che Andy sia un grande pensatore.» Thorne represse una risata e per poco un sorso di Red Bull non gli uscì dal naso. Un po' della bevanda gli finì sulla giacca. «E la cosa peggiore,» concluse Holland «è che funziona.»

Thorne a questo punto scoppiò a ridere di gusto, pulendosi la giacca. Poi sollevò gli occhi udendo un accento di Manchester che conosceva bene.

«Quella roba non ti sveglia se la usi per applicazioni esterne» stava dicendo Phil Hendricks, indicando la lattina di Red Bull.

«Cosa ci fai qui, Phil? Credevo che fossi occupato con l'autopsia di Moloney.»

Hendricks diede un'occhiata all'orologio. «Comincio tra un paio d'ore. All'obitorio di Westminster ormai i cadaveri devono fare la fila.»

Holland si alzò per lasciargli il posto e si diresse verso il bagno.

«Tughan voleva vedermi subito per un rapporto preliminare» disse Hendricks sedendosi.

«Posso sapere anch'io di cosa si tratta?»

Hendricks fece una faccia confusa. «Per quale motivo credi che io sia qui?»

«Allora parla.»

«Moloney è morto a causa di ferite da arma da fuoco alla testa. Quasi certamente una nove millimetri. Niente proiettili nell'auto, quindi dovrò estrarli dal corpo, per esserne certo.»

«Le ferite da taglio sono le stesse di sempre?»

«Sì...»

A Thorne sembrò di notare una traccia di indecisione nel tono dell'amico. «Non ne sei sicuro?»

«Non ho ancora capito bene che lama usa. Forse è un coltello da filetto. E stavolta i tagli non erano così netti come per Clayton e gli altri.»

«Forse l'assassino aveva meno tempo.»

«Già. E forse Moloney ha opposto più resistenza delle altre vittime.»

«Questa è la prima volta che lo fa in una macchina. Aveva anche meno spazio per muoversi...»

Hendricks annuì. Era tutto perfettamente sensato.

«Comunque diresti che si tratta dello stesso killer» disse Thorne. «L'X-Man.»

Hendricks ci mise diversi secondi prima di annuire, ancora non del tutto convinto. E Thorne ebbe il tempo di pensare che forse loro avevano capito tutto alla rovescia. Stavano presumendo che gli Zarif avessero ucciso Moloney per colpire Eyan. Ma c'era anche un'altra possibilità...

«E se il killer avesse saputo che Moloney era un agente di polizia?»

«Signore?» disse Holland, di ritorno dal bagno.

Più ci pensava, più Thorne ne era convinto. Pensò a Moloney che parlava al cellulare, fuori dalla sala giochi. Stava chiamando Nick Tughan, ignaro che la sua copertura era saltata.

«Credo che avessero scoperto che era un poliziotto» disse Thorne. «E con la storia dell'X-Man hanno trovato un modo perfetto di disfarsi di lui. Credo che sia stato Billy Ryan a far uccidere Moloney.»

Thorne prese il cellulare per chiamare Tughan, ma prima che potesse comporre il numero il telefonino si mise a squillare. Era Brigstocke.

«Tom? Abbiamo appena ricevuto una chiamata dal Central Middlesex Hospital...»

Thorne pensò immediatamente: papà.

«Da un funzionario di Park Royal.»

Prima sollievo, poi di nuovo panico. «Cosa è successo?» disse Thorne, ma conosceva già la risposta, prima che Brigstocke parlasse.

«Qualcuno ha cercato di uccidere Gordon Rooker.»

 

CAPITOLO 11

 

Thorne avrebbe preferito trascorrere da qualche altra parte quella mattina di sole. Odiava gli ospedali, per le solite ragioni di tutti, più altre tipiche del suo lavoro.

Tirò la sedia un po' più vicina al letto. Accanto a lui era seduto Holland, e dall'altro lato un agente di custodia della prigione si godeva qualche minuto di relax in una malandata poltrona marrone.

«Sei un bastardo fortunato, Gordon» disse Thorne.

Rooker era stato assalito due giorni prima, poco più di un'ora dopo che Thorne e Chamberlain avevano affrontato Ryan per strada, e quattro ore prima della morte di Moloney.

Probabilmente l'attacco era stato organizzato già dopo la prima volta che Thorne aveva menzionato il nome di Rooker, nell'ufficio di Ryan.

Definitivamente aveva toccato un nervo scoperto.

Quando Thorne aveva portato a Ryan i saluti di Rooker, fuori dalla sala giochi, lo aveva visto sorridere. Probabilmente pensava di aver già risolto il problema. Anzi, due problemi, visto che poche ore dopo aveva fatto assassinare Moloney.

Rooker cercò di sollevarsi un po' e fece una smorfia di dolore. «Fortunato?» disse. Poi lasciò ricadere la testa sul cuscino.

La lama ricavata dal manico di un pennello che Alun Fisher gli aveva infilato nella pancia durante la lezione di pittura, aveva mancato miracolosamente tutti gli organi vitali. Rooker aveva perso molto sangue, ma era bastato chiudere la ferita per salvarlo, senza bisogno di operazioni complicate.

«Sono fortunato perché sono vivo» continuò Rooker. «Ma il fatto che qualcuno abbia già saputo quello che stava per succedere non mi sembra affatto una fortuna.»

Thorne decise che era meglio non fargli sapere chi era stato a fare il suo nome a Billy Ryan.

«Avevo detto che ero un uomo segnato, giusto?» disse Rooker. «Ora ho un motivo in più per fare tutto il possibile contro quel figlio di puttana.»

Rooker aveva i capelli unti e la faccia del colore di un livido vecchio. Il dente d'oro gli brillava ancora in bocca, ma il ponte che aveva al posto dei denti davanti superiori riposava in un bicchiere sul comodino. Aveva una flebo nel braccio sinistro e il destro era ammanettato a quello dell'agente di custodia rapato a zero che sedeva in poltrona, con il viso nascosto dietro un paperback.

Rooker sollevò il braccio ammanettato, e si sollevò anche quello dell'agente, il quale non spostò gli occhi dalla pagina. «Non è ridicolo?» disse. «Come se potessi tagliare la corda, in queste condizioni. O come se qualcuno potesse aiutarmi a fuggire.»

«Perché, non hai amici, Gordon?» chiese Holland.

«Vede fiori, qui dentro?»

«Amici, conoscenti, dovremo controllarli tutti» disse Thorne. «Un paio di persone sono ancora preoccupate a causa di quel tizio comparso dal nulla a rivendicare il tentato omicidio di Jessica Clarke.»

«Controllate quello che vi pare» disse Rooker. «Io non posso aiutarvi. Comunque vi dico una cosa: se quel tizio è il vero responsabile, sappiamo entrambi chi è l'unico che può darvi il suo nome.»

La luce del sole che filtrava da dietro le tende ammorbidiva il bagliore metallico del carrello da medicazione e del sostegno per la flebo.

«Parlami di Alun Fisher» disse Thorne.

Con i pochi denti che gli restavano in bocca, Rooker sibilò: «Non è nessuno. Solo un povero stronzo...».

L'agente di custodia ridacchiò, forse per le parole di Rooker, o forse per qualcosa di buffo che aveva letto nel suo libro.

«Un povero stronzo che si fa di eroina.»

Thorne capì dove voleva andare a parare. «E che aveva un debito da pagare. Giusto?»

«Un debito grosso. Provi a indovinare con chi?»

«E così Fisher semplicemente ti si è avvicinato durante la lezione di pittura e ti ha pugnalato?» disse Holland.

«Credevo che fossi in grado di prevederlo» disse Thorne. «È quello che hai detto l'ultima volta. Che se qualcuno avesse voluto farti fuori, tu l'avresti saputo prima.»

Rooker tirò su con il naso, e gettò un'occhiata alla sua destra. «Qualcuno ha guardato dall'altra parte. Gli insegnanti che lavorano in prigione non sono pagati molto. O forse un secondino voleva un'auto nuova, una vacanza con la moglie e i bambini...»

Se l'agente di custodia era sconvolto dalle accuse di Rooker, non lo dava a vedere. Nella prigione era già in corso un'inchiesta per appurare le responsabilità. Alun Fisher era in isolamento, in attesa di sapere cosa gli sarebbe accaduto. Avendo mancato l'obiettivo, probabilmente era più preoccupato di quello che gli avrebbe fatto Billy Ryan che di un'eventuale maggiorazione della pena.

«Hai intenzione di sporgere denuncia?» chiese Holland.

«Che senso ha? Trasferiranno Fisher in un altro carcere. Vorrei solo passare il resto del tempo che mi resta da scontare senza altri incidenti.»

«Dipende da te» disse Thorne.

Rooker sollevò la mano destra per grattarsi la testa. L'agente di custodia alzò lo sguardo, attese qualche secondo, poi tirò giù la mano.

«Quanto ci vorrà per controllare tutti i miei amici?» chiese Rooker. «Prima finite, prima possiamo cominciare a parlare, senza perdere altro tempo...»

Thorne capì che Rooker era riluttante a menzionare la protezione, e soprattutto il nome di Ryan, davanti all'agente di custodia. «Non sarà una cosa rapida» disse. «I miei superiori hanno iniziato a considerare la tua proposta solo da un paio di giorni.»

Rooker scosse la testa. «Tipico. Se ci avessero pensato prima, avrei evitato di ritrovarmi quel pennello nella pancia.»

Thorne sapeva che probabilmente la responsabilità di ciò che era successo era sua, ma non si sentiva troppo colpevole. Il telefonino di Holland si mise a squillare. La guardia carceraria alzò un attimo gli occhi dal libro, e Holland, dopo aver gettato un'occhiata al display, andò a rispondere fuori portata d'orecchio.

«Ehi, quelli dovrebbero essere spenti, qui dentro. Possono interferire con i macchinari medici...»

L'agente di custodia parlò per la prima volta. «Peccato che tu non sia collegato a nessuna macchina, allora» disse. «Avresti fatto un favore a tutti.»

Thorne non riuscì a nascondere il sorriso. «Quanto tempo deve restare qui?» chiese.

«Con un po' di fortuna potremo trasferirlo nell'infermeria della prigione domani» rispose l'agente. «È un'unità di livello tre, con tutti gli equipaggiamenti necessari.»

Rooker fece una faccia contrariata, ma la fretta era comprensibile. Il carcere lo rivoleva dove avrebbe potuto sorvegliarlo meglio, con meno dispendio di personale. E l'ospedale doveva essere ben contento di liberarsi al più presto di un paziente che aveva bisogno di guardie armate.

Thorne udì il suono del telefonino che annunciava la fine della conversazione, e chiese a Holland. «Novità?»

«Era l'ispettore capo Tughan. Vuole che le riferisca un messaggio. Non le piacerà...»

«Merda.»

Thorne immaginava quale sarebbe stato il messaggio. Dovevano aver rifiutato l'offerta di Rooker. Era passato poco tempo, quindi la pratica si era bloccata a un livello non molto alto. Sarebbe stato interessante sapere esattamente dove...

Thorne si alzò e si mise la giacca di pelle. «La situazione non sembra molto promettente, Gordon.»

L'agente di custodia sorrise, e tornò al suo libro.

 

Thorne riuscì a finire la giornata senza dover parlare con Tughan. Si immerse in una pila di note che non aveva ancora letto, e di aggiornamenti sui casi a cui stava lavorando prima di quello.

Poi passò la serata davanti al televisore, senza chiamare Tughan a casa.

Venerdì all'ora di pranzo, quando ormai pensava di avercela fatta, vide Tughan che parlava con Sam Karim nella sala di pronto intervento.

Marciò dritto contro di lui, pronto ad attaccare briga. Karim si dileguò immediatamente. Tughan si mise a sfogliare con aria indifferente il Manuale per le indagini sugli omicidi che sembrava essere diventato la sua Bibbia.

«Hai potuto trovare una risposta, lì dentro?» chiese Thorne.

Tughan alzò gli occhi. «Cosa vuoi, Tom?»

Thorne non lo sapeva con certezza. «Perché non hanno accettato?»

«Per tutte le solite ragioni.»

«Tipo?»

«Oh, avanti. Russell e io abbiamo sollevato delle questioni, quando tu hai posto il problema. Quando finalmente hai posto la questione...»

Thorne capì che Tughan era molto seccato. «Questa era un'ottima possibilità di beccare Ryan per un delitto e...»

«Sulla parola di un uomo che vent'anni fa aveva confessato di essere l'autore di quel delitto, e che oggi all'improvviso ha cambiato opinione.»

«Ryan è spaventato. Sul serio. Altrimenti perché avrebbe cercato di togliere di mezzo Gordon Rooker dopo tutto questo tempo?»

Tughan si inumidì un dito e cominciò a sfogliare il manuale. «Il rilascio di un detenuto potenzialmente pericoloso non è una cosa da intraprendere se sussistono dubbi.»

«Ma sarebbe stato rilasciato sotto la nostra custodia.»

«In questo momento, l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una richiesta di compensazione per una condanna ingiusta.»

«Ma come potrebbe chiedere una cosa del genere, Rooker? È stato condannato perché ha confessato

Tughan lo fissò con compatimento. «Un avvocato in gamba non ci metterebbe molto a montare un caso, sostenendo che quella confessione è stata estorta a Rooker con la forza.»

«Queste sono soltanto scuse.»

Tughan voltò un'altra pagina.

«Secondo me sei solo seccato perché sono stato io a trovare un modo per inchiodare Ryan.»

«Credo che dovresti tornare al lavoro, Tom...»

«E l'idea che sia stato Ryan a uccidere Moloney? Qualcuno sta seguendo sul serio quella pista?»

Tughan arrossì violentemente. «E questo cosa vorrebbe significare?»

«Ryan aveva una copertura perfetta. Sono stati i suoi uomini a trovare due dei cadaveri, perciò lui sa esattamente cosa fa l'X-Man alle sue vittime.»

«Lo so...»

«Doveva solo assicurarsi che l'assassino usasse lo stesso tipo di pistola e facesse delle incisioni a "X" sulla schiena di Moloney.»

«Stiamo controllando.»

Thorne represse una risata ironica. «Ma senza fretta, perché è stata un'idea suggerita da me.»

Tughan chiuse il manuale con un colpo secco. Sembrava che facesse un grande sforzo per non alzare la voce. «Ancora con questa storia. "Io, Io, Io." Ci sono oltre cinquanta persone al lavoro su questo caso...»

«Lascia perdere la predica sul gioco di squadra, per favore.» Thorne si chinò in avanti, stringendo il bordo della scrivania. «A te la squadra interessa solo finché tu ne sei il capitano.»

«Non ho intenzione di restare qui ad ascoltare queste sciocchezze» disse Tughan, agitando il libro sotto il naso di Thorne. «Con chi credi di parlare?»

Thorne fece un passo indietro, ridendo malgrado la rabbia. «Cosa vuoi fare, tirarmi addosso il manuale?»

Tughan lo fissò, pronto a scattare. Poi gradualmente sulle sue labbra si disegnò un sorriso. «Forse te ne tirerò addosso una piccola parte» disse. Aprì il manuale e si mise a sfogliarlo finché trovò il punto che cercava. Prese una penna, sottolineò alcune righe, poi strappò la pagina, fece un passo avanti e la premette contro il petto di Thorne. «Eccoti qualcosa a cui pensare.»

Mentre Tughan usciva dalla sala a passi lunghi, Thorne prese il foglio spiegazzato, e lesse la parte sottolineata: «L'approccio moderno all'indagine sull'omicidio riconosce il fatto che non c'è più spazio per la figura dell'"investigatore solitario"...».

 

Hendricks quella sera lavorava fino a tardi, e Thorne si trovò di nuovo solo davanti al televisore. Lo irritava oltre misura il fatto che Tughan si rifiutasse di prendere in considerazione delle idee perfettamente sensate, ma più di ogni altra cosa lo disturbava il pensiero che Ryan ce l'avrebbe fatta anche quella volta. Sì, forse Tughan un giorno l'avrebbe incastrato per droga, o per una semplice evasione fiscale. O magari l'avrebbero fatto fuori gli Zarif.

Ma lui non avrebbe pagato per Jessica Clarke...

Thorne restò immerso in pensieri cupi per un paio d'ore, poi lanciò una sfilza di improperi contro un cuoco che preparava piatti improbabili in diretta, e finalmente cominciò a sentirsi meglio. Merda, febbraio era quasi finito e la primavera era dietro l'angolo. Stava pensando che magari quel fine settimana poteva andare a prendere suo padre e portarlo a Brighton, dalla zia Eileen, quando squillò il telefono.

«Stai guardando la televisione?» chiese Chamberlain.

«Stavo per chiamarti. La proposta di Rooker non è stata accettata...»

«Sintonizzati sul notiziario e alza il volume» disse Chamberlain.

Thorne allungò una mano verso il telecomando e obbedì senza discutere.

Una giornalista parlava in primo piano davanti alla telecamera. Poi la ripresa si spostò dal viso della reporter, e la storia fu raccontata in una serie di immagini scioccanti.

Un campo da giochi vuoto. Un gruppo di studentesse a una fermata dell'autobus. Una lattina di liquido infiammabile.

Thorne sentì una stretta allo stomaco.

«Ci ha provato di nuovo» disse Chamberlain. «Ha cercato di bruciare un'altra ragazza.»

 

Marzo

IL PESO DELL'ANIMA

 

CAPITOLO 12

 

Thorne parcheggiò davanti alla casa e restò seduto in silenzio per cinque minuti buoni. Gli ci voleva una pausa. Il tempo era passato in un turbine di attività, nei sette giorni trascorsi tra il tentativo di omicidio ai danni di una ragazzina, e la visita che intendeva fare ora, al padre di un'altra ragazza, morta quasi vent'anni prima.

Sette giorni in cui le autorità avevano cambiato rapidamente parere, riguardo all'offerta di Gordon Rooker...

Thorne attese finché il motore smise di ticchettare, prima di scendere e incamminarsi verso la casa. Era al centro di una semplice area vittoriana, dalla parte sud di Wandsworth Common, non lontano dalla prigione. Thorne suonò il campanello e fece due passi indietro sul vialetto. Quasi tutte le case intorno erano illuminate. Persone che cenavano, o si preparavano a uscire per godersi la serata del venerdì. In quella zona dovevano abitare circa mezzo milione di persone. E ora le case costavano senz'altro parecchio di più di quindici anni prima, quando i Clarice vi si erano trasferiti da Amersham, dove andava a scuola Jessica.

L'uomo che venne ad aprire annuì, mentre Thorne infilava la mano in tasca in cerca del tesserino. «Non si disturbi» disse con voce nasale, scostandosi per farlo passare. «Chi altri potrebbe essere?»

Ian Clarke aveva telefonato in centrale meno di un'ora dopo che la notizia era stata riportata dai telegiornali. Aveva voluto sapere tutti i particolari, insistendo anche per essere tenuto al corrente delle indagini. Ora non sembrava più così agitato: durante il week-end doveva essersi calmato un po'.

«Grazie per essere venuto. È arrivato giusto in tempo per un tè. Le va?»

«Sì, grazie.»

«Abbiamo dell'Earl Grey...»

«Monkey Tea, se ce l'ha.»

La signora Clarke servì il tè, poi annunciò che aveva del lavoro da fare e uscì dalla stanza, con uno sguardo molto simile a quello che di solito si riserva ai malati gravi in ospedale.

«Emma ha un'azienda di catering» disse Clarke. «Si è attrezzata un piccolo ufficio al piano di sopra.»

«Capisco. E sua figlia?»

Ci fu una brevissima pausa, poi Clarke disse: «Isobel?».

Thorne annuì. La seconda figlia.

«Oh, sarà in giro da qualche parte.»

Clarke aveva divorziato dalla prima moglie nel 1989, tre anni dopo la morte di Jessica. Era una cosa che Thorne aveva visto succedere frequentemente, dopo la perdita di un figlio. Spesso era impossibile per una coppia superare il senso di colpa e la rabbia. Impossibile guardare negli occhi il marito, o la moglie, e non vedere il viso del figlio morto.

«Non ci sono altre notizie, allora?» chiese Clarke. Si passò una mano sulla testa. Aveva perso molti capelli, tagliando cortissimi quelli che restavano. Ciò metteva in evidenza i suoi lineamenti scolpiti e i vivaci occhi azzurri. Doveva avere più di cinquant'anni, ma sembrava dieci anni più giovane.

Thorne scosse la testa. «No. I nuovi articoli pubblicati dai giornali sono fatti con un rimpasto delle stesse notizie di prima. Non è emerso nulla di nuovo.»

«Testimoni? Descrizioni? Era una strada trafficata, per l'amor di Dio.»

«Non è cambiato nulla dall'ultima volta che abbiamo parlato al telefono.»

«So che non ho il diritto di sapere nulla, e le sono grato...»

Thorne fermò con un gesto i ringraziamenti e le scuse implicite. Entrambi bevvero un sorso di tè, fissando il caminetto a gas. Sulla mensola del camino c'erano cartoline, sigarette, un invito a un party scritto da una mano infantile. Il grande specchio incorniciato sulla parete rifletteva un acquerello alle spalle di Thorne.

Clarice seguì il suo sguardo. «È un ritratto della madre di Jessica. Una delle poche cose che ho tenuto.»

Era seduto su una poltrona di pelle dall'aria molto usata. Thorne era seduto sul divano adiacente. Erano entrambi chini in avanti, ciascuno con la sua tazza sulle ginocchia.

«Abbiamo bisogno di un po' di fortuna» disse Thorne. «È sempre così.»

«E se lui cerca di dare fuoco a un'altra ragazza? È quella la fortuna di cui avete bisogno?» Clarke si alzò e andò a tirare le tende.

Thorne fu di nuovo colpito vedendo come era in forma per la sua età, e glielo disse, grato di aver trovato qualcosa con cui rompere quel silenzio imbarazzante. «Io invece dovrei perdere un po' di pancetta» concluse, dandosi un colpetto sullo stomaco.

Clarke tornò a sedersi in poltrona. «Gestisco un centro di fitness» spiegò.

Thorne annuì, pur sapendo che in realtà quello non spiegava nulla. Le parrucchiere di solito avevano pettinature orribili, e aveva conosciuto non pochi poliziotti disonesti. «Noi presumiamo,» disse «che l'incidente della scorsa settimana sia connesso in qualche modo a quello che avvenne a sua figlia.»

Clarke si tirò un labbro con il pollice e l'indice. «È chiaro. È stata... un'azione dello stesso tipo. Probabilmente si tratta di un pazzo che ne ha letto la descrizione sui giornali.»

«Già. Oppure potrebbero esserci altri collegamenti.»

«Quali?»

Come aveva detto lui stesso, Clarke non aveva il diritto di essere informato di nulla. Ma l'unico motivo per cui Thorne si trovava seduto in quel soggiorno era perché voleva informarlo. Era venuto apposta.

«È possibile che l'uomo condannato per il tentato omicidio di sua figlia non fosse il vero colpevole.»

Clarke fece una risata secca. «Cosa? Solo perché uno psicopatico ha cercato di bruciare un'altra ragazza?»

«No...»

«È ridicolo. Allora se una prostituta viene fatta a pezzi a Leeds, domani notte, significa che Peter Sutcliffe è innocente?»

«Avevamo buoni motivi per presumere l'innocenza di Gordon Rooker già prima di quello che è successo la settimana scorsa.»

Il viso di Clarke si fece teso udendo il nome di Rooker. «Io invece presumo che "buoni motivi" sia un eufemismo da poliziotto, dico bene? Un po' come quando un medico dice a un malato sul letto di morte che "Sta bene, considerate le circostanze". Ascolti, qui stiamo parlando dell'uomo che ha confessato di aver appiccato il fuoco a mia figlia.»

«Lo so.»

«Ha confessato, capisce?»

«Ora ha ritrattato quella confessione.»

«Be', è un po' tardi, cazzo!» Clarke si batté le cosce con le mani, e atteggiò le labbra a un sorriso, ma la voce era piena di veleno. Allungò una mano dietro la poltrona, e accese un faretto. «Meglio fare un po' di luce.»

Thorne fissò il cerchio di luce proiettato sul soffitto. «Ha ragione, naturalmente. Rooker ha aspettato troppo.»

«Quindi pensate che quella ragazza sia stata assalita dallo stesso uomo che appiccò il fuoco a Jess?»

«Dobbiamo almeno considerare questa possibilità.»

«E dove se n'è stato nascosto questo tizio negli ultimi vent'anni?»

La domanda era ovvia, come ovvie erano le risposte che Thorne poteva dargli. «All'estero, forse. O in galera per un altro delitto...»

«Ed è uscito allo scoperto perché...?»

«Perché ha paura che Rooker stia per uscire. Vuole farci fare la figura degli stupidi, dirci che abbiamo sbagliato tutto. O vuole solo rivendicare il credito per quello che ha fatto. Sinceramente non lo so, signor Clarke.»

Con un gesto meccanico Thorne si portò la tazza alle labbra, pur sapendo che il tè era finito. «Ascolti, noi non sappiamo chi sia quest'uomo o se sia davvero lo stesso che cercò di uccidere sua figlia. E non lo sa neppure Gordon Rooker, o almeno dice di non saperlo.»

«Quindi non credete a tutto quello che dice.»

«No. Ma tra le cose che dice, c'è anche questa: sostiene di sapere chi è il responsabile per quello che accadde a Jessica. Sa chi è il mandante e ce lo dirà.»

«È stato un gangster» disse Clarke. «Mi fu detto, in via non ufficiale, che non si poteva essere certi al cento per cento della sua identità, ma che fu ucciso poco dopo quello che aveva fatto a Jess. Giusto?»

Thorne non rispose subito. Sapeva di non poter andare oltre nelle sue rivelazioni. «Mi dispiace, ma non posso...»

Clarke alzò le mani. «Capisco.»

«Voglio che sappia una cosa» disse Thorne. «Se Gordon Rooker esce di prigione, sarà solo per aiutarci a mettere dentro il mandante di ciò che accadde a sua figlia.»

Clarke sembrò riflettere su quelle parole. Spostò la poltrona in modo da trovarsi di fronte al fuoco a gas del caminetto, e tese le mani verso il calore. Thorne pensò: "Come può sopportare di guardare le fiamme? Cosa vede, quando lo fa?".

«Dovrebbe avere una foto di Jess» disse Clarke all'improvviso.

Thorne sentì un brivido leggero strisciargli lungo la schiena. Gli sembrò che l'uomo gli avesse letto nel pensiero. Clarke si alzò e si diresse verso un cassettone in un angolo della stanza, sul quale c'erano diverse foto incorniciate. Ne prese una e cominciò a sbloccare i fermi che la fissavano alla cornice. «Questa qui» disse, tirandola fuori da sotto il vetro.

Thorne si alzò e andò a prenderla dalle sue mani. Clarke gliela diede e si diresse verso la porta. «Questa è "prima". Voglio darle anche una del "dopo". Non le tengo qui perché spaventano Isobel.»

Uscì dalla stanza. Thorne udì i suoi passi sulle scale.

Dovrebbe avere una foto di Jess. L'aveva detto in un tono come se fosse un consiglio per il suo benessere. Dovrebbe tenere sotto controllo il colesterolo. Dovrebbe versare sempre i contributi per la pensione. Dovrebbe avere una foto di mia figlia che è morta.

Clarke sembrava consapevole che quella non era una visita ufficiale. E quella foto non voleva darla "alla polizia". Voleva darla a lui, personalmente.

Udì il rumore di una porta aperta e chiusa, al piano di sopra, e andò ad aspettare Clarke nell'ingresso. Gli sembrava che fosse arrivato il momento di concludere la visita.

Clarke scese le scale a passo di corsa, e gli mise in mano la foto. Thorne la guardò appena per paura di essere osservato se l'avesse fissata troppo a lungo. Guardò Clarke e capì che quella era una reazione che doveva aver visto centinaia di volte.

«C'erano dei gangster al funerale» disse Clarke. «Assassini, trafficanti di droga, picchiatori. Quando lei si è suicidata, sono venuti a mostrarle il loro rispetto.» Parlava in tono calmo, ma la rabbia sotto era evidente. «Era una giornata bellissima, quando l'abbiamo seppellita. Dicevamo tutti che era opera di Jess, perché amava tanto il bel tempo. E a un tratto sono arrivati quei tizi vestiti di nero con gli occhiali da sole a rovinare tutto. Kevin Kelly e quella puttana di sua moglie, e quell'altro, quello che ha preso il suo posto... Ryan. Tutti lì con enormi corone di fiori. Su una c'era persino il nome di Jessica, Cristo! Erano venuti a portare delle corone a Jess, che era morta perché una sua amica era la figlia di un gangster...»

Thorne non riusciva a guardarlo in faccia, e annuiva a testa bassa, con la foto tra le mani.

«Avevamo fatto dei sacrifici per mandare Jess in quella scuola. E Kelly, cosa aveva dovuto fare? Quante persone aveva ucciso, o derubato, per mandare quella... per mandare sua figlia in quella scuola?»

Thorne vide una figura apparire in cima alle scale. Una ragazza adolescente con i capelli lunghi e biondi.

Clarke si voltò. «Isobel...»

Thorne non capì se si era rivolto a lei o se gliela stesse presentando. Restò sorpreso dalla somiglianza della ragazza con la sorellastra. Voleva guardare la foto per controllare, ma la foto di Jessica "prima" dell'attentato era sotto l'altra, e si sentì incapace di muovere le mani.

«Ciao» disse.

La ragazza mormorò un saluto imbronciato e scomparve. Clarke fece una tipica faccia da genitore. «Ha tredici anni» spiegò. Poi cambiò espressione. «Tra un paio di settimane ne avrà quattordici...»

Thorne stava pensando a qualcosa da dire sui ragazzi che crescono in fretta, ma prima che potesse parlare Clarke gli si avvicinò per aprire la porta, e disse, a bassa voce: «Ha detto che quell'uomo ha tentato di uccidere Jessica. Ma non è così».

«Mi scusi, non...»

«L'ha uccisa, signor Thorne. L'ha uccisa.»

Thorne distolse lo sguardo dal viso di Clarke, ma poi, vergognandosi, tornò a fissarlo negli occhi.

«Ci ha messo qualche anno a morire, ma è stata assassinata quel giorno.»

Non c'era altro da dire, eccetto "arrivederci". Lo dissero entrambi e la porta finalmente si chiuse a separarli.

 

La gente ammassata alla fermata all'inizio era solo una folla indistinta, e non solo per la qualità della pellicola. Un gruppo di persone tutte vicine per proteggersi dal freddo. Alcune ragazze immerse in conversazione, con un sacco di cose di cui parlare mentre aspettavano l'autobus.

Non c'era sonoro, ma non era difficile immaginare le urla di paura, di rabbia, di confusione.

Il gruppo si apre di colpo, rivelando l'uomo per la prima volta. Una donna anziana lo indica, tirando la manica di un'altra donna che spinge un passeggino. Le ragazze sono agitatissime. L'uomo, con il viso nascosto dal cappuccio della giacca a vento, si volta e si allontana lungo la strada correndo senza fretta, come se stesse facendo jogging...

Hendricks si affacciò dalla cucina. «La cena sarà pronta tra un paio di minuti» disse.

Thorne si alzò dal divano ed espulse la cassetta dal videoregistratore. Poi prese la bottiglia di vino dalla mensola sopra il caminetto e riempì di nuovo il bicchiere di Carol Chamberlain.

«Niente da altri angoli visuali?» disse lei.

Thorne scosse la testa e bevve un sorso dal suo bicchiere. «Queste sono le immagini migliori che abbiamo.» La televisione a circuito chiuso ormai aveva un ruolo importante in molte indagini. Spesso però la presenza di telecamere non funzionava affatto da deterrente.

Gli spacciatori di crack in Coldharbour Lane e quelli di eroina intorno a Manor House sapevano esattamente dove si trovavano, e le trattavano con la stessa indifferenza che avrebbero riservato a un vigile urbano. Spesso conducevano i loro affari in piena vista, limitandosi a voltare la testa o a mettersi di spalle per evitare le immagini che avrebbero potuto incriminarli. E a volte, dopo aver concluso la trattativa, tornavano a voltarsi per strizzare l'occhio alla telecamera. Ma di tanto in tanto la sorveglianza televisiva riusciva a fissare l'immagine di un rapinatore, di un assassino, o delle loro vittime.

In quel caso, la vittima aveva avuto fortuna.

«Non ha senso» disse Chamberlain. «Come credeva di potersela cavare? Dico, se la ragazza non avesse visto che cosa stava facendo e lui fosse riuscito a darle fuoco.»

«Avrebbe potuto farcela benissimo» disse Thorne. «Tutti si sarebbero preoccupati di aiutare la ragazza. Inoltre sai meglio di me che nessuno oggigiorno vuol fare l'eroe solitario che cerca di fermare il colpevole e si becca una pallottola o una coltellata.»

Chamberlain fissò il bicchiere. «Ma perché a una fermata dell'autobus? Perché questo cambiamento nel modus operandi

«Le scuole ora sono molto più sorvegliate» disse Hendricks. «Stavolta per lui sarebbe stato quasi impossibile avvicinarsi al campo giochi di una scuola senza essere notato.»

Chamberlain scosse la testa. «In pieno centro a Swiss Cottage alle quattro del pomeriggio? Non ha senso. Il posto era affollatissimo.»

Hendricks tornò un attimo in cucina a controllare qualcosa, poi disse: «Evidentemente voleva fare notizia».

«Credi che sia lo stesso uomo?» chiese Thorne a Chamberlain.

«Sì, ne sono quasi certa. La giacca a vento sembra uguale...»

Thorne fece un cenno negativo con il capo. «Non intendevo quello. Credi sia lo stesso che ha dato fuoco a Jessica Clarice venti anni fa?»

La risposta si fece attendere qualche secondo. «Non sembrava... vecchio» disse Carol Chamberlain alla fine. «Non sono riuscita a vederlo in faccia, ma è più il portamento che me lo ha fatto pensare.»

«Stai pensando a Rooker, a qualcuno della sua età» disse Thorne.

«Credo di sì.»

«Ma se quell'uomo avesse avuto vent'anni, all'epoca, oggi ne avrebbe quaranta o poco più.»

«È scappato via di corsa. E questo che non quadra con l'uomo che immaginavo.»

«È corso via al piccolo trotto» disse Thorne. «È una cosa che tanti sono in grado di fare, anche a cinquanta o sessant'anni.»

Hendricks si avvicinò per riempire il suo bicchiere. «Era la cosa migliore da fare, per non attirare troppo l'attenzione. Così molti avranno pensato che era solo un passante che faceva jogging.»

In quel momento si udì in cucina il campanello del timer. Hendricks mise giù il bicchiere e tornò a occuparsi della cena.

«Se è davvero lui» disse Chamberlain. «Anche questa volta dietro quello che fa c'è Billy Ryan?»

«Non ne ho la più pallida idea.»

Hendricks imprecò ad alta voce. O aveva bruciato la cena, o si era scottato una mano.

«Tutto bene, Delia?» gli gridò Thorne.

Dalla cucina arrivò un'altra sfilza di imprecazioni, stavolta a voce più bassa.

Chamberlain rise. «L'odore è ottimo, qualunque cosa sia.» Vuotò il bicchiere e guardò l'orologio.

«Perché non resti a dormire qui?» le chiese Thorne. «Ti lascio il mio letto, e...»

«No, grazie, preferisco prendere l'ultimo treno e tornare a casa. Se puoi darmi il numero di una compagnia di taxi...»

«Non è un problema, sul serio. Sono sicuro che Jack sia perfettamente in grado di prepararsi la colazione da solo.»

Chamberlain scosse la testa e si diresse verso la cucina.

Thorne le mise una mano sulla spalla. «Quando prenderemo Ryan, lui ci dirà chi è stato a dare fuoco a Jessica Clarke, vent'anni fa. Ci darà un nome.» Indicò il videoregistratore. «Se è stato quell'uomo, lo prenderò. Se non è stato lui, prenderò il colpevole, se è ancora vivo. È una promessa, Carol.»

Chamberlain lo fissò con uno sguardo tra grato e divertito.

Thorne si rese conto che nello sforzo di rassicurarla, aveva spostato la mano e aveva cominciato ad accarezzarle la schiena con un gesto circolare. Lei sollevò le sopracciglia. «Questo invito a restare a dormire» disse. «Cosa hai in mente, di preciso?»

 

Ian Clarke era seduto sul divano, con un braccio intorno alle spalle della moglie e fissava lo schermo del televisore. Piangeva una volta all'anno, il giorno del compleanno di Jessica, che era anche l'anniversario della sua morte. Per il resto del tempo, si teneva tutto dentro. Le costole imprigionavano come sbarre il cuore, con tutti i suoi sentimenti e i desideri oscuri.

Rifletteva su tutto quello che si erano detti lui e Thorne, e aveva il cuore gonfio.

Sua moglie a un tratto rise per una battuta del presentatore, e gli si fece più vicina. Clarke le accarezzò meccanicamente i capelli, fissando il muro sopra lo schermo del televisore. Di tanto in tanto, dal piano di sopra veniva il rumore dei passi della sua seconda figlia.

 

Thorne non riusciva a dormire, e si chiedeva se era solo indigestione, o qualcosa di cui sarebbe stato più difficile liberarsi.

La serata era stata piacevole, ma alla fine era stato contento che Carol avesse chiamato il suo taxi, ed Hendricks avesse deciso di lasciare le pulizie per il mattino seguente.

L'incertezza che circondava il caso Ryan-Clarke era stata con lui per tutta la sera, come un'ospite non invitata. Ora la sentiva sopra di sé, mentre fissava il lampadario Ikea che detestava.

Non sapere era la cosa peggiore.

In alcuni casi di cui si era occupato, Thorne aveva scoperto, visto o capito cose che avrebbe preferito evitare. Tuttavia, malgrado le verità orribili che aveva dovuto affrontare, preferiva sempre la conoscenza all'ignoranza, anche se spesso il peso da sopportare era maggiore.

Sotto il piumino, allungò una mano a toccarsi. Ci provò per qualche minuto, poi lasciò perdere, incapace di concentrarsi.

Cominciò a pensare alle foto di Jessica Clarke, che aveva lasciato nella giacca di pelle. Pensò al viso devastato di Jessica che premeva contro la fodera della tasca. E pensò al diario che aveva nella borsa.

Era una lettura che preferiva rimandare a un'altra sera.

Prese il walkman, si infilò le cuffie e schiacciò play: The Mountain,una collaborazione di Steve Earle con la band di Del McCoury, 1999. Si massaggiò il petto, decidendo che quasi certamente era indigestione.

Era impossibile restare depressi a lungo, ascoltando il bluegrass.

 

CAPITOLO 13

 

«Hai un aspetto migliore oggi, Gordon» disse Holland.

«Tutto è relativo» rispose Rooker.

«Bene» disse Stone. «Allora diciamo che hai un aspetto migliore di un sacco di merda, ma non sei bello come Tom Cruise. Così va meglio?»

L'agente di custodia in piedi dietro di loro si chinò verso Stone. «Possiamo fare in fretta, per favore?»

Erano seduti intorno a un tavolo in un piccolo ufficio in un angolo della sala visite. Erano stati preparati un televisore e un videoregistratore, e Holland stava cercando il punto giusto della cassetta.

Stone mostrò un foglio all'agente. «Non è una lista lunga» disse. Poi indicò Rooker. «Non è esattamente il vostro ospite più popolare, giusto?»

Quell'interrogatorio faceva parte di un controllo generale su Rooker. Mentre Holland e Stone erano in quella stanzetta, altri membri della squadra stavano controllando tutti gli ex detenuti di Park Royal che avevano avuto contatti con Rooker e che potevano essere disposti a fargli un favore dall'esterno.

La lista di Stone conteneva i nomi di tutti quelli che avevano fatto visita a Rooker negli ultimi sei mesi. Se l'uomo che aveva telefonato a Carol Chamberlain era lo stesso dell'impresa a Swiss Cottage, e se era in qualche modo d'accordo con Rooker, era più che possibile che il piano fosse stato concepito nella sala visite della prigione. Il telefono era altamente improbabile, come forma di comunicazione, perché le chiamate di un detenuto di categoria B come Gordon Rooker erano soggette a controlli casuali. Se Rooker aveva un complice, Thorne era sicuro che il suo nome si trovava in quella lista.

«È facile controllare nomi e indirizzi» aveva detto a Holland. «Ma voglio che esaminiate la lista insieme a Rooker, cavandogli ogni informazione possibile. Notate come reagisce quando gli mostrate le facce. Dobbiamo avere la certezza assoluta che non ci stia prendendo in giro.»

Degli esperti avevano esaminato tutti i video registrati in sala visite negli ultimi sei mesi, editandoli e poi consegnando alla squadra un nastro di pochi minuti: quello che stavano per guardare in quel momento.

«Fatto» disse Holland, scostandosi di lato.

Stone diede una leggera pacca sulla schiena di Rooker. «È un film muto, Gordon. Sta a te inserire i commenti.»

Rooker si mise gli occhiali e avvicinò un po' di più la sedia al televisore.

Sullo schermo apparvero una serie di immagini scollegate. Individui che entravano in sala visite, depositavano borse e cappotti sulle sedie e si accomodavano. Nessuno sembrava particolarmente felice di trovarsi li.

«Cath, la mia figlia maggiore» disse Rooker, indicando una donna sui trentotto anni dai capelli neri. Indossava jeans e una felpa, e se avesse avuto una pettorina Holland l'avrebbe scambiata per una detenuta. «Suo figlio è stato preso dal West Ham...»

L'immagine fu sostituita all'improvviso da quella di un'altra donna, stavolta sulla settantina. Cappotto verde abbottonato fino al collo. Borsetta tra le mani. «Iris, la sorella minore di mia madre. Viene ogni tanto a dirmi chi è morto...»

Un uomo, circa della stessa età di Rooker. Gesti animati, completo spiegazzato grigio come i suoi capelli.

«Tony Sollinger, vecchio compagno di bevute. Si è messo in contatto con Lizzie dopo anni di silenzio, ed è venuto a trovarmi per dirmi che gli è venuto un cancro. La gente è strana...»

Una donna di età imprecisata, tra i cinquanta e i settanta. Capelli nascosti sotto un foulard stampato. «Parlando del diavolo... Mia moglie, anzi quasi ex moglie, ormai. Durante la sua visita annuale.»

Da qualche parte dietro di loro si levò un urlo, forse di rabbia, o di dolore. Holland e Stone si voltarono verso la sala visite.

«Si capisce perché la gente non faccia la coda per venire qui» disse Stone. «Non è certo Disneyland.»

L'agente di custodia fece una risata senza emettere alcun suono.

«Wayne Brookhouse» continuò Rooker. «Stava con la mia figlia minore.» Un uomo poco più che ventenne, capelli scuri e occhiali. Accendeva una sigaretta con la cicca dell'altra. «Mia figlia non viene mai, così è lui che mi porta sue notizie. Dice di essere un meccanico, ma io non ci credo. Comunque è un bravo ragazzo.»

Un nero sui quaranta, molto alto e ben vestito, con camicia bianca a maniche corte e cravatta scura. «Simons o Simmonds, non sono sicuro. Uno di quei deficienti che vanno a trovare i carcerati. Secondo me è una cosa un po' morbosa. Comunque è innocuo, e io preferisco parlare con lui, piuttosto che con le bestie che ci sono qui dentro.»

Infine, il visitatore più recente. Un uomo dalle spalle larghe, un po' più basso della media. Capelli grigi ai lati della testa, immobile, con lo sguardo fisso sulla testa china di Rooker: Tom Thorne.

Stone rise, e guardò Holland: «Cristo, questo sì che sembra un pericoloso criminale».

Pochi secondi dopo il nastro finì e cominciò a riavvolgersi.

Holland mise via il suo taccuino. Stone disse, rivolto a Rooker: «Cinque visite in sei mesi. Mi sembra che si siano dimenticati di te, amico».

Rooker si alzò. «È quello che spero.»

Si voltò e uscì. La guardia carceraria lo seguì con calma, pulendosi le unghie con il bordo plastificato del tesserino di identificazione.

 

«È diventato tutto molto tranquillo, qui dentro» disse Kitson.

Thorne annuì. Sapeva che non si riferiva solo al fatto che molti membri della squadra avevano pranzato presto ed erano andati all'Oak. «Diventerà ancora più tranquillo, se qualcuno non prende una decisione riguardo a Billy Ryan» disse.

Da quando avevano cambiato parere su Gordon Rooker, l'operazione congiunta si era divisa in due correnti distinte. Ovviamente la priorità più alta era quella di catturare l'autore dell'attentato a Swiss Cottage, ma nelle prime ventiquattr'ore dopo il fatto, le più importanti ai fini dell'indagine, non erano approdati a nulla. Nonostante l'ora e il luogo, non c'era neppure una descrizione utile. L'uomo aveva il viso nascosto dal cappuccio della giacca a vento, e le testimonianze discordavano ampiamente in quanto alla sua altezza e corporatura, a causa dei suoi vestiti invernali e della postura ingobbita.

La ragazza era già tornata a scuola, mentre la madre si dedicava a parlare dell'incredibile inettitudine della polizia su tutte le reti televisive e radiofoniche locali.

Sua figlia, a quanto ne sapevano, era stata scelta completamente a caso dall'incendiario. Un altro vicolo cieco. Non era tanto che le piste non conducessero da nessuna parte. Semplicemente non c'era nessuna pista da seguire.

Nel frattempo, c'era sempre la faccenda di Billy Ryan, che forse era collegata al fatto di Swiss Cottage e forse no. Grazie a Rooker stavano costruendo un'accusa contro di lui, ma c'era incertezza riguardo a come muoversi sul campo.

Nick Tughan era per l'approccio morbido. Bisognava occuparsi della guerra tra Ryan e gli Zarif, e secondo lui non c'era nulla da guadagnare mettendo subito Ryan di fronte alle accuse di Rooker. Per una volta, Thorne aveva fatto soprattutto da spettatore, durante la discussione della settimana prima.

«Stiamo lavorando con Rooker» aveva detto Tughan. «Stiamo mettendo insieme le prove, ma mentre lo facciamo non bisogna dimenticare che è in corso una guerra tra bande rivali. La mia prima responsabilità è fare in modo che non ci siano altri omicidi.»

Brigstocke aveva detto: «Avanti, Nick. Non si tratta certo di salvare vite innocenti».

«Hanya Izzigil non era innocente?» aveva replicato Tughan, con rabbia. «E Marcus Moloney?.»

Brigstocke aveva abbassato lo sguardo, senza rispondere.

«Non sappiamo quale sarà la prossima mossa di Ryan.» Tughan si era avvicinato alla finestra, guardando fuori. «Ha cercato di togliere di mezzo Rooker ma non ci è riuscito. E deve anche reagire all'assassinio di Moloney. Sono già passate due settimane...» Si voltò e sollevò una mano prima che Thorne potesse parlare. «Anche se è stato lui stesso a uccidere Moloney, dovrà comunque fare una rappresaglia, altrimenti sembrerà troppo strano.»

«Perché allora non lo mettiamo sotto pressione per Moloney?» aveva chiesto Brigstocke.

«Non si tratta solo di Ryan. Qualunque cosa accada, io voglio anche gli Zarif.»

«Certo, ma ora stiamo parlando di Billy Ryan. Dovremmo mettergli i bastoni tra le ruote, in qualche modo, e invece ce ne stiamo qui a grattarci la pancia.»

La vista di auto e cemento sembrava attirare irresistibilmente Tughan. Si era voltato di nuovo verso la finestra, dicendo: «Aspettiamo...».

Thorne a quel punto non si era potuto trattenere. «Sei stato tu a dire che Rooker non era affidabile.» Si era spostato a sinistra, in modo da poter vedere almeno il profilo di Tughan. «La giuria potrebbe pensare la stessa cosa. Anche se troveremo delle prove, Rooker potrebbe non essere un testimone credibile. Gli avvocati di Ryan faranno di tutto perché non lo sia. Non sarebbe meglio attaccare Ryan anche da un'altra angolazione?»

«Giusto» lo aveva appoggiato Brigstocke.

«Ricordiamo a Ryan che non ci siamo dimenticati di lui» aveva insistito Thorne. «Agitiamo un po' le acque.»

Ora, seduto nel suo ufficio con Yvonne Kitson, Thorne sorrideva ancora pensando alla risposta di Tughan. «Questa è la tua specialità, vero Tom? Agitare le acque. Sei un cucchiaio ambulante.»

Kitson ruotò la sedia per poterlo guardare in faccia. «Credi che sarà Brigstocke ad averla vinta?»

«Russell fa del suo meglio» disse Thorne. «Ma ogni tanto ha bisogno di una spinta. Gli ho ricordato che anche lui è un ispettore capo, e si è innervosito non poco.»

Kitson rise. Thorne ricordò un momento in cui si erano trovati seduti insieme in ufficio, l'anno prima. Yvonne mangiava un sandwich che aveva tirato fuori da un contenitore Tupperware, e Thorne aveva pensato che lei avesse la propria vita sotto controllo.

Thorne sentì brontolare lo stomaco. Sam Karim doveva portargli un panino al formaggio, tornando dal pub. Di certo, neppure il mago culinario dell'Oak non sarebbe riuscito a rovinare una cosa tanto semplice.

«Cosa fai per pranzo, Yvonne?»

Prima che lei potesse rispondere, bussarono alla porta.

Entrò Holland, seguito da Andy Stone, e fecero rapporto sulla visita a Park Royal.

Thorne guardò le stampe delle immagini che avevano mostrato a Rooker. «Credo che possiamo eliminare la moglie, la figlia e la zia» disse.

Holland fece una smorfia. «Non ne sono sicuro. Qualcuna di loro può aver passato dei messaggi.»

Thorne non lo credeva, ma in quel caso era meglio giocare sul sicuro. «Hai ragione. Va' a fare due chiacchiere con la moglie e la figlia.»

Mentre i due stavano uscendo, Stone si voltò e disse: «È sicuro che non dobbiamo controllare anche la vecchietta? Per me ha un'aria losca».

Thorne annuì. «Certo. La discrepanza tra percezione e realtà.» Rivolse a Stone uno sguardo innocente. «Sono certo che i grandi filosofi avranno molto da dire sull'argomento.»

Holland represse una risata e uscì. Stone fece una faccia perplessa, come se non avesse capito il riferimento.

«Cosa c'entrano i filosofi?» chiese Kitson.

Thorne sorrise. «È una cosa che mi ha detto Holland riguardo a Stone e ai suoi trucchi per conquistare le donne.»

«Dicono che sia uno sciupafemmine. È vero?»

«Così pare. Sembra che le donne facciano carte false per poter andare a letto con i poliziotti. Io però non ne conosco neanche una.»

Kitson arrossì, e Thorne si rese conto di quello che aveva detto.

«Scusa, Yvonne.»

«Non essere stupido.»

Thorne annuì. Stupido era la parola giusta per definire come si sentiva. «Come ti va?»

«Non bene.»

«Come stanno i bambini?»

Yvonne, che si era voltata, tornò di nuovo a girare la sedia verso di lui. Evidentemente voleva parlare. «Il maggiore ha dei problemi a scuola. Non so se abbia a che fare con quello che è successo, ma sono riuscita a convincermi di sì. Cerco di dirmi che è assurdo, non posso sentirmi in colpa tutto il tempo. Poi uno di loro batte la testa, o prende una storta giocando a pallone, e subito penso che sia colpa mia...»

Squillò il telefono sulla scrivania di Thorne, e Kitson si interruppe.

Era l'agente di guardia al cancello. Gli disse che una donna chiedeva di vederlo.

 

Di fatto, quella donna non aveva chiesto di vedere lui, specificamente. Era soltanto che in quel momento Thorne era il membro della squadra 3 di grado più elevato presente nell'edificio. Thorne avrebbe riflettuto a lungo su quella coincidenza, nei giorni seguenti.

Thorne scese nell'atrio e si diresse verso di lei, dopo aver rivolto un cenno all'agente dietro la scrivania. Era sui trentacinque, e piuttosto alta. Capelli color sughero, carnagione pallida. Indossava eleganti pantaloni grigi e giacca intonata. Per qualche motivo, Thorne si domandò se poteva essere un'ispettrice del fisco.

«È riuscita a trovare parcheggio?» chiese. Pensandoci meglio, non riusciva a immaginare che un'ispettrice del fisco potesse essere tanto attraente.

Lei annuì e tese la mano a Thorne. «Sono Alison Kelly» disse.

Forse scambiò l'espressione stupita di Thorne per ignoranza. Ripeté il nome, spiegando: «Jessica Clarice era la mia migliore amica. L'hanno scambiata per me».

Thorne le lasciò la mano, imbarazzato per averla tenuta così a lungo. Lei non sembrò farci caso. «Mi scusi. So chi è. È solo che... Non l'aspettavo.»

«Forse avrei dovuto telefonare, prima di venire.»

Si fissarono per un paio di secondi. La domanda che salì spontanea alle labbra di Thorne era: Cosa vuole? Invece si guardò intorno, in cerca di un posto dove potessero parlare in privato. «Andiamo a sederci da qualche parte» disse. «A meno che non preferisca fare una passeggiata...»

Lei scosse la testa. «Fuori si gela.»

«La primavera è vicina...»

«Grazie a Dio.»

Becke House era una centrale operativa, perciò non disponeva di una sala colloqui permanente. C'era una stanzetta a destra della reception, che veniva usata per le emergenze, o per le bottiglie quando c'era un party. Un tavolo, due sedie, un paio di armadietti traballanti. Thorne controllò che non fosse occupata, poi fece cenno ad Alison Kelly di entrare.

«Vedo se riesco a farci portare un tè» disse.

Lei entrò, si sedette e cominciò a parlare prima ancora che Thorne chiudesse la porta. «Ecco quello che so» disse subito, con una voce perfetta e priva di accento, che tuttavia riusciva a non essere snob. «Non state facendo nessun progresso per trovare l'uomo che ha gettato del liquido infiammabile su quella ragazza, a Swiss Cottage.»

Thorne chiuse la porta e andò a sedersi di fronte a lei. «Non so cosa si aspetta che dica...»

«Tre giorni prima di quell'episodio, qualcuno ha cercato di uccidere l'uomo che è in galera per aver dato fuoco a Jess, pugnalandolo allo stomaco con il manico affilato di un pennello. È ovvio che c'è un collegamento. Sta succedendo qualcosa.»

«Posso chiederle come fa a sapere tutte queste cose?»

Lei scosse leggermente la testa. Non era proprio un rifiuto, ma era come se rispondere fosse inutile. Poi continuò a dire quello che sapeva: «Anche se non sapeste che il pugnalatore doveva un sacco di soldi a Billy Ryan, dovreste essere degli idioti per non aver capito chi era il mandante. È chiarissimo che il responsabile è Ryan».

«Chiarissimo» le fece eco Thorne.

«Voleva morto Rooker, per i motivi che sappiamo.»

I motivi che sappiamo. Thorne provò un certo sollievo scoprendo che non sapeva proprio tutto.

«Ma perché abbia scelto proprio questo momento per vendicarsi di quello che Rooker fece vent'anni fa resta un mistero.»

Thorne era disturbato ed eccitato da quella strana conversazione. L'atteggiamento di quella donna lo affascinava e allo stesso tempo lo irritava.

«Ha detto: "L'uomo che è in galera per aver dato fuoco a Jess". È strano. Come mai non ha detto: "L'uomo che ha dato fuoco a Jess"?»

Lei gli rivolse uno sguardo vuoto, senza rispondere.

«Ha qualche motivo per pensare che Gordon Rooker non sia il vero responsabile di quel delitto?»

Lei non riuscì a nascondere un mezzo sorriso. «Allora è vero che sta succedendo qualcosa.»

Thorne capì di essere caduto in una elaborata trappola verbale. Dietro gli occhi verdi di Alison Kelly c'era più di quanto lui avesse sospettato.

«Un'altra cosa che so,» disse lei, sempre sorridendo «è che non mi dirà nulla.»

Ormai il momento delle cortesie era passato. «Cosa vuole, signora Kelly?»

La maschera sicura si ammorbidì. «Lei non è l'unico che non si aspettava di vedermi qui dentro» disse. «Ho dovuto bere un bicchierone di vino nel pub qui di fronte, per trovare il coraggio di entrare.» Il sorriso ora sembrava nervoso, e la voce aveva perso ogni pretesa di sicurezza o di autorità. «Voglio sapere cosa ha fatto quella ragazza a Swiss Cottage. Cosa hanno fatto le sue amiche per salvarla, cosa hanno visto e cosa hanno fatto che noi non vedemmo e non facemmo.»

«Non credo sia il caso...»

«Io mi sono accorta di qualcosa solo quando ho visto Jess correre verso di me, e mi sono scansata. Capisce? Sono riuscita solo a restare a guardare.» Ormai aveva abbassato la voce fin quasi a un sussurro. «Ho sentito lo sfrigolio, quando le fiamme le hanno avvolto i capelli. E l'odore. Lei ha mai sentito un odore del genere?

Ho pensato che avrei vomitato, ma non lo feci. Allora. Adesso, invece, basta solo il pensiero, il rumore di un fiammifero che sfrega sulla scatola...»

Aveva un'aria disorientata, come un adulto in un campo da giochi per bambini, o una bambina in una centrale di polizia.

«Sarebbe potuto toccare a me. Doveva toccare a me...»

Thorne aprì la bocca ma non riuscì a pensare abbastanza in fretta a qualcosa da dire.

«Voglio sapere perché Jess non si è salvata, mentre quell'altra ragazza sì. Voglio che lei mi dica cosa avrei potuto fare per salvarla.»

 

Thorne alzò il volume del televisore abbastanza da coprire il rumore di Hendricks che cantava in bagno. Prese in braccio Elvis, e si mise a sfogliare le pagine sportive dello «Standard». Non riusciva a smettere di pensare a quello che gli aveva detto Alison Kelly. Evidentemente lui non era l'unico che non sopportava di non sapere...

Il bisogno di certezza di Alison Kelly tuttavia aveva radici più profonde del suo. C'erano parecchie cose che lui avrebbe rifatto in modo diverso, se ne avesse avuto la possibilità. Ma non ce n'erano molte di cui si sentisse responsabile.

Alison Kelly invece aveva passato vent'anni a rimproverarsi e a sentirsi in colpa. E quelle due emozioni si erano nutrite l'una dell'altra, diventando sempre più forti come due parassiti che ingrassavano a spese dell'organismo ospite.

Chissà se era stata davvero molto più fortunata di Jessica Clarke.

Elvis saltò giù. Thorne si alzò e andò a prendere nella borsa il piccolo quaderno nero che non aveva ancora aperto, da quando Ian Clarke glielo aveva consegnato.

Il chiasso dal bagno sembrava finito, per fortuna. Thorne tornò a sedersi sul divano e tolse l'audio alla tivù.

 

Quando cominciò a sentire i formicolii, Chamberlain si spostò dall'orlo della vasca al water, voltando la testa in modo da non vedersi riflessa nello specchio. Era già trascorsa mezz'ora da quando era salita. Si sentiva vecchia e stupida.

Aveva passato il week-end a lavorare al caso insoluto di cui si stava occupando in quel periodo: un allibratore pugnalato a morte in un pub, nel 1993. Un morto e una famiglia che meritavano giustizia come chiunque altro, ma lei in quel periodo non riusciva a pensare ad altro che a Jessica Clarke.

Quello era un caso che aveva seguito da vicino.

E aveva sbagliato tutto.

Tre notti prima, sul treno che la portava a casa dopo la serata con Thorne, era quasi riuscita a convincersi che non era così, che non avrebbe potuto agire in un modo diverso. Rooker aveva confessato, Cristo. Non c'era nessun motivo plausibile per cercare un altro colpevole.

Si era quasi convinta, ma restava il fatto che aveva sbagliato. Sentiva il dolore del fallimento professionale, e quello più profondo che deriva dall'aver deluso qualcuno.

La cosa peggiore, naturalmente, era sentirsi inutile. Era stata lei a sbagliare, ma non avrebbe potuto fare nulla per rimettere le cose a posto.

Udì un rumore di passi sulle scale. Poi Jack la chiamò. Lei non rispose.

Un paio di settimane prima c'erano stati alcuni giorni in cui si era di nuovo sentita una poliziotta. Quando era andata con Thorne a parlare con Gordon Rooker. Quando avevano affrontato Billy Ryan fuori dalla sala giochi. Poi, quando il caso di Rooker aveva acquistato maggiore importanza, lei era stata gentilmente spinta da parte, e si era sentita male proprio come quando aveva riconsegnato il tesserino, sette anni prima. Naturalmente doveva aspettarselo. Il fatto che Thorne l'avesse invitata a cena e le avesse mostrato le immagini della tivù a circuito chiuso era solo un favore, e nient'altro. Probabilmente non ce ne sarebbero stati altri.

Si inginocchiò e tirò fuori detersivo e spugnetta dallo stipo sotto il lavandino.

Se doveva essere qualcun altro a risolvere il caso di Jessica Clarke, le sarebbe piaciuto che si trattasse di Tom Thorne. Ma in realtà non voleva che lo risolvesse nessun altro...

I passi sulle scale ripresero a salire. Chamberlain versò il detersivo lungo il bordo della vasca, e si disse di smettere di essere ridicola. Avrebbe fatto meglio a tornare a occuparsi del suo allibratore morto.

Mentre cominciava a sfregare con la spugnetta, Jack bussò piano alla porta. «Tutto bene, tesoro?»

 

14 marzo 1986

Aver perso più di un anno di scuola comincia a causarmi dei problemi. Ora che Ali e Manda e il resto sono in una classe superiore, io mi trovo con persone più piccole di me, che non conosco. Certo, posso parlare con le mie ex compagne a pranzo o durante la ricreazione, ma molte di loro sono già un po' distanti, tutte prese dai problemi della nuova classe.

Le ragazze della mia classe invece sono troppo gentili. Questo è il problema. So che è stato detto loro cosa dire e cosa non dire. So persino che è venuto qualcuno dall'ospedale a parlare con gli insegnanti, la settimana prima che io tornassi a scuola. Alcuni di loro riescono meglio di altri a sembrare naturali.

Il mio nuovo professore però è simpatico.

Ci sono un paio di ragazze in gamba nella nuova classe, ma la maggior parte proprio non le sopporto. Forse sono ingiusta, so che è difficile anche per loro. Ricordo che io mi sentivo sempre a disagio alle elementari, quando parlavo con una ragazza che aveva il labbro leporino. Con alcune ragazze, qui, è difficile capire se si tratta di timidezza o di paura. Altre stanno facendo di tutto per diventare le mie amiche del cuore, e un paio sono proprio delle stronzette ignoranti.

Forse le cose miglioreranno con il passare del tempo.

MOMENTO DI MERDA DELLA GIORNATA

Quando è calato il silenzio mentre mi toglievo la camicia, prima della lezione di educazione fisica.

MOMENTO MAGICO DELLA GIORNATA

Quando in tivù è apparso uno spot di Nightmare: dal profondo della notte, e mia madre, pensando che non me ne accorgessi, si è piazzata davanti allo schermo, per impedirmi di vedere la faccia di Freddy Kruger.

 

CAPITOLO 14

 

La fila di solide case vittoriane non sarebbe stata fuori posto a Holland Park o a Notting Hill. Invece si trovava in un'area storica di Finchley.

Il sole splendeva nel cielo, ma la temperatura non superava i nove gradi, e il primo giorno di primavera era ancora lontano.

L'uomo che portava a spasso il cane sul prato, godendosi il pomeriggio, poteva sembrare un pilastro della comunità. Invece era tutt'altro.

Mentre Thorne camminava verso di lui, lo osservò giocare con il piccolo terrier. Dubitava che Billy Ryan avesse con qualche altro essere vivente il rapporto affettuoso che sembrava avere con quell'animale.

«Mi sarei aspettato un rottweiler o un dobermann» disse, appena gli fu vicino. «O forse un pitbull...»

Ryan non si mostrò molto preoccupato, vedendolo. «Non devo dimostrare niente a nessuno. Non ho un uccello piccolo da compensare, e preferisco i cani di piccola taglia.»

Thorne lo vide scuotere la testa e fare un cenno a qualcuno dietro di lui. Si voltò e vide l'"impiegato" di Ryan risalire sulla jeep da cui era appena sceso, dall'altra parte del prato. Lo salutò, ma ricevette in cambio solo uno sguardo freddo.

«Si è preso il pomeriggio libero, signor Ryan?»

Ryan sorrise, aggiustandosi gli occhiali da sole sul naso. «Penso di essermelo meritato, no?»

Poi si chinò a prendere la palla bavosa che il cane teneva in bocca. Fece finta di tirarla da una parte e la tirò dall'altra. Il cane partì di corsa e Ryan lo seguì camminando.

Thorne gli si affiancò, e indicò la jeep. «Lui è tutto quello che ha?»

«Che intende dire?»

«Sono certo che sia ben armato, ma anche così un uomo solo mi sembra poco. Adesso anche lei è un bersaglio. Dico bene?»

«Adesso?» disse Ryan, aggiustandosi la sciarpa rossa intorno al collo del cappotto di cachemire.

«Dopo Moloney.»

Ryan gli rivolse un'occhiata di traverso, ma si voltò prima che Thorne potesse cercare di interpretare la sua espressione. «È stato un dispiacere.»

«Un dispiacere che sia stato ucciso, o un dispiacere che fosse un poliziotto?»

«Scelga lei.»

«Non ha mandato una corona di fiori...»

Moloney era stato seppellito il fine settimana prima. Sua moglie aveva rifiutato il funerale in pompa magna offerto dalla polizia.

Ryan scrollò le spalle. «Un brutto modo di andarsene, glielo garantisco. Ma è stato lui a mettersi sulla linea di fuoco.»

«E a sparare chi è stato, secondo lei?»

«Scoprirlo è il suo lavoro, non il mio.»

Il cane tornò con la palla. Ryan tornò a gettarla lontano e riprese a camminare.

«Tuttavia la sua morte la pone in una posizione difficile» disse Thorne. «Adesso lei deve reagire, o almeno far vedere che reagisce...»

«Contro chi?»

«...Ma una rappresaglia sembrerebbe un po' ironica.»

«Facciamo finta per un attimo che lei non stia dicendo un cumulo di sciocchezze.»

«Facciamo finta...»

«Perché sarebbe ironico?» Il viso di Ryan si era indurito di colpo.

Riflesso nei suoi occhiali, Thorne vide il prato alle proprie spalle e il cane che correva verso di loro. "Perché sei stato tu a farlo uccidere, bastardo assassino." «Perché lui era un poliziotto, naturalmente» disse.

Stavolta Ryan strappò la palla dalla bocca del cane e se la mise in tasca. Il terrier abbaiò un paio di volte, poi si allontanò, annusando qualcosa sul terreno. Non era l'unico a seguire una pista.

«Non ha risposto alla mia domanda» disse Thorne.

«A quale?»

«A quella di prima. Quando ho detto che anche lei ora è un bersaglio, per i fratelli Zarif.»

«I fratelli chi?»

«Adesso mi sembra molto rilassato, mentre l'altro giorno chiedeva a gran voce di essere protetto...»

«Non ho mai chiesto niente a nessuno in tutta la mia vita, e quando parlavo di protezione mi riferivo alla mia famiglia.»

«Ah, mi scusi.»

Ryan si tolse gli occhiali scuri. Poiché la luce era ancora forte, il gesto doveva avere un altro significato. Forse Ryan voleva che Thorne lo guardasse negli occhi.

«Nessuno conquista una posizione importante in un'attività e, appena quell'attività è minacciata, scappa con la coda tra le gambe. Devi difendere il tuo territorio, altrimenti se lo prende qualcun altro.»

«Kevin Kelly decise di smettere.»

Ryan si rimise gli occhiali da sole. «Sono cose di tanto tempo fa, di cui lei non sa nulla.»

«Ma conosco persone che ne sanno parecchio» disse Thorne.

«Certo, dimenticavo Miss Marple. Dove l'ha lasciata oggi?»

«Kevin Kelly lasciò tutta la sua organizzazione nelle sue mani. Un bel colpo di fortuna per lei, no? C'erano persone che avevano un curriculum migliore del suo, per aspirare a quella posizione. Ma è il capo a decidere, e Kelly decise di lasciare tutto a lei. Deve aver fatto un bel lavoro da leccaculo per convincerlo...»

Ryan non disse nulla. Il sole si rifletteva sui suoi capelli.

«Quindi, Kevin Kelly se ne va a vivere in campagna, ben contento che non sia toccato a sua figlia avere quella faccia da fantasma dell'opera, e la Famiglia Kelly diventa la Famiglia Ryan.»

«La memoria della vecchia comincia a fare cilecca» disse Ryan. «Le cose non sono andate proprio così.»

«La cosa terribile e disgustosa che accadde in quella scuola, per lei è stata un vantaggio.»

Da qualche parte tra gli alberi un cane si mise a latrare, ma Ryan non tolse gli occhi da quelli di Thorne. Annuì. «Mi chiedevo quando avrebbe tirato fuori di nuovo Gordon Rooker.»

«Non l'ho tirato fuori io» disse Thorne.

Ryan si avviò verso gli alberi, stavolta a passo svelto.

Thorne lo seguì a due passi di distanza, alzando la voce per farsi sentire. «Ma visto che l'ha menzionato, forse le interesserà sapere che qualcuno ha cercato di ucciderlo, in carcere. Tuttavia adesso sta bene, glielo dico nel caso fosse preoccupato per lui. Sta bene ed è al sicuro...»

Ryan si fermò, e fece un sorriso a labbra strette. «Questo è un colloquio ufficiale?»

Thorne ci pensò su.

Notò che Ryan strusciava i piedi a terra, proprio come aveva fatto fuori dalla sala giochi, quando aspettava la macchina che doveva venire a prenderlo. «Be', io sono pagato per parlare con lei...»

«Ma qualunque cosa si aspetta che dica, non la porterà da nessuna parte. Neppure se per caso ha addosso un registratore. Perché ci sono persone, pagate da me, le quali faranno in modo che qualunque prova lei pensi di avere non regga in tribunale. E ora, se vuole scusarmi, la conversazione è finita.»

«Non ho addosso un registratore» disse Thorne. «Mi interessa solo capire qual è la sua posizione riguardo ad alcune cose, e le parlo in modo diretto.» Sorrise. «È inutile menare il can per l'aia, no? L'espressione che usiamo noi è "essere audace entro i limiti della legalità".»

«L'espressione che uso io invece è "non tiri troppo la corda".»

Ryan si infilò due dita in bocca e fischiò, avviandosi verso la jeep. Thorne non capì se fischiava al cane o all'autista.

In ogni modo, entrambi arrivarono di corsa.

Fuori era freddo e buio, e il traffico sulla North End Road era intasato. Dentro la sua BMW, Thorne era di ottimo umore.

Il resto della giornata a Becke House era andato liscio, visto che Tughan e gli altri del Projects Team erano andati al loro quartier generale a Barkingside. Thorne aveva cominciato a scalare una montagna di scartoffie, occupandosi dei casi che erano stati messi da parte nelle ultime settimane.

Aveva anche ricevuto degli aggiornamenti sulle indagini di Holland e Stone riguardanti i visitatori di Rooker.

«Niente di significativo» aveva detto Holland. «La moglie e la figlia sono quello che ci si può aspettare. Nessuna delle due è Madre Teresa, ma mi sono sembrate piuttosto innocue. Philip Simmonds, il volontario che lo va a trovare, è decisamente sinistro, ma quei tipi lo sono quasi sempre...»

Stone aveva annuito, aggiungendo le proprie osservazioni. «Wayne Brookhouse, l'ex della figlia minore, sembra un po' losco. Tony Sollinger è morto tre settimane fa. Cancro all'intestino.» A un tratto aveva alzato gli occhi dagli appunti. «Com'è andata con Ryan, signore?»

Thorne era contento del suo giro a Finchley, e anche del fatto che Brigstocke fosse finalmente riuscito a convincere Tughan dell'opportunità di far sapere a Ryan che loro gli stavano addosso. La cosa ironica era che in teoria sarebbe dovuto essere il Projects Team ad avere una tendenza più attiva dell'Unità per i Reati Gravi.

O meglio, anche nell'unità c'erano squadre che avevano un approccio attivo, tendendo ad anticipare gli avversari. La Volante, per esempio, usando fonti di informazioni accuratamente selezionate, a volte riusciva a prevenire le rapine, o addirittura a prendere i banditi con le pistole in mano, pochi secondi prima che compissero il crimine. Quello era il risultato più ambito.

Ma per la Omicidi era diverso. Quelli che andavano a caccia di assassini potevano solo essere reattivi. Potevi sapere in anticipo dove sarebbe avvenuta una rapina, ma non dove sarebbe comparso un cadavere. Riguardo al quando,in quel caso Thorne poteva prevedere che presto ne sarebbero comparsi altri.

Stava attraversando Belsize Park, con i suoi negozi carissimi di cibo biologico, quando decise di andare a cena più presto del solito. Svoltò a sinistra prima della stazione della metropolitana di Chalk Farm, e si diresse verso Seven Sisters Road. Chiamò Hendricks e lo avvisò che avrebbe cenato fuori.

 

Il cibo era ottimo, e le porzioni decisamente abbondanti.

Arkan Zarif osservò Thorne mentre assaggiava la prima forchettata di polpettone di agnello avvolto in uno strato di patate. Thorne annuì con entusiasmo, continuando a masticare, e il vecchio sorrise, contento. «Ho scelto io la carne» disse. «Naturalmente ho anche cucinato, però scegliere la carne è la parte più importante.» Sorrise di nuovo mentre Thorne si metteva in bocca un'altra forchettata, poi disse: «Bene, la lascio mangiare in pace...».

«No, la prego, si sieda» disse Thorne. «Non capita spesso di poter parlare con lo chef...»

Zarif annuì. «Va bene, le terrò compagnia bevendo un whisky.» Si voltò e disse qualcosa in turco alla figlia dietro il banco. Lei rivolse un'occhiataccia a Thorne, il quale le sorrise in risposta. Il vecchio si chinò verso di lui e sussurrò: «Sema è sempre così. Lei non c'entra».

«Ne è sicuro?» disse Thorne, mentre la giovane versava del Johnny Walker in un bicchiere, aggiungendo una dose di acqua minerale. «Io tendo a fare questo effetto alle donne.»

Zarif rise, ansimando e battendosi una mano enorme sul petto. Sema portò il whisky al tavolo e tornò dietro il banco senza dire una parola.

«Serefé» disse Zarif, sollevando il bicchiere.

Thorne sollevò la sua birra Efes in risposta.

«Significa "Al nostro onore".»

«Al nostro onore» gli fece eco Thorne.

Seguì un silenzio, durante il quale Thorne divorò quasi tutto quello che aveva nel piatto, bevendoci sopra lunghi sorsi di birra.

«Sono contento che le piaccia la coscia della signora» disse Zarif.

Thorne lo guardò, confuso, senza smettere di masticare.

«Questo piatto si chiama kadinbudbu. E significa "coscia di signora". Se non le fosse piaciuto, avrei detto che forse non le piacciono le donne. Capisce la battuta?» Di nuovo quella risata ansimante.

«E i vegetariani, allora?» chiese Thorne.

Zarif gli rispose con un'occhiata come se quella fosse la prova che quanto aveva detto era la pura verità. «Tutti i piatti sul menu significano qualcosa, in turco. Cos'ha preso di antipasto?»

«Le melanzane fritte.»

Zarif indicò il piatto sul menu. «Imam bayildi. Significa "il prete è svenuto". Capisce? È svenuto perché questo piatto gli è piaciuto troppo.»

«Io non sono svenuto» disse Thorne. «Però era davvero buono.»

«Hunkar begendi» disse Zarif, indicando di nuovo il menu. «È un piatto che so cucinare molto bene. Spezzatino di agnello in salsa bianca. Il nome significa "è piaciuto molto all'imperatore".»

«Gli è piaciuto come al prete?»

Zarif non capì la battuta. «Ogni nome significa qualcosa, ma molti è meglio non tradurli. Alcuni clienti inglesi mi chiedono perché i nomi sul menu sono solo in turco. Io rispondo che se fossero in inglese, ci sarebbero dei piatti chiamati "kebab di spazzatura", "prostituta imbottita", eccetera.»

Thorne rise.

«E forse la gente non vorrebbe ordinare piatti del genere.»

«Chissà» disse Thorne. «Forse invece molti verrebbero apposta.»

Zarif rise rumorosamente, battendosi di nuovo il petto e facendo cadere un po' di whisky sul tavolo.

Thorne pensò a suo padre, a quanto si sarebbe divertito con quella conversazione. Si sarebbe annotato tutti i nomi dei piatti...

«E i nomi delle persone?» chiese Thorne. «Anche quelli significano sempre qualcosa?»

Zarif annuì. «Certo.»

Thorne allontanò il piatto, ormai vuoto. «Cosa significa Zarif?»

Il vecchio ci pensò su, alla ricerca della traduzione giusta. «Zarif significa... "delicato".»

Thorne rivide lo schizzo di sangue sulla carta da parati, i tagli sulla schiena del cadavere di Mickey Clayton...

«Delicato?» chiese.

Zarif annuì di nuovo. Attirò l'attenzione della figlia con un gesto, e le disse qualcosa. Lei si diresse con espressione cupa verso un piccolo frigo a un lato del bancone.

«Il mio nome, invece, Arkan, ha un doppio senso, che dipende dal contesto e dal modo in cui si pronuncia. Significa "sangue nobile", ma anche "culo".»

Thorne rise, e ingollò l'ultimo sorso di birra. «Anche il mio nome significa cose diverse per persone diverse» disse.

«Già» disse Zarif. «Thorn significa "spina". E una spina è piccola, pungente...»

«Irritante» aggiunse Thorne. «E a volte difficile da togliere.»

Sema arrivò e posò un piattino davanti a Thorne, il quale rivolse a Zarif uno sguardo interrogativo.

«Questo è suklac. Offre la casa.»

Era un semplice budino di riso, cremoso e aromatizzato alla cannella.

«È ottimo» disse Thorne.

«Grazie.»

Si aprì la porta e l'espressione del vecchio cambiò. Thorne si voltò a metà e vide due uomini. Dall'espressione sulla faccia di Sema capì che dovevano essere i due fratelli Zarif che non aveva ancora conosciuto, Memet e Tan.

Arkan Zarif si alzò e andò verso il banco, dove i due iniziarono a parlargli rapidamente in turco. Thorne li osservò, senza guardarli in modo troppo diretto.

Memet sembrava sulla quarantina, aveva pochi capelli e li portava tagliati cortissimi. Aveva anche un pizzetto, più folto e definito di quello di Thorne, ma che non nascondeva il doppio mento. Tan, di una quindicina di anni più giovane, era basso e magro come una frusta. Non perdeva i capelli come il fratello, ma li aveva rasati come lui. Portava una linea sottile di barba che sembrava disegnata con la matita intorno al labbro superiore e alla mascella. Probabilmente si considerava un duro, e fissava Thorne con aria di sfida, mentre Memet parlava.

Memet sorrideva e di tanto in tanto dava un colpetto affettuoso sulla schiena del padre, ma Thorne, pur non comprendendo una parola, aveva notato il tono serio della voce.

A un certo punto udì menzionare il suo nome, e si voltò. Ricordò quello che gli aveva detto Chamberlain, sul fatto che i criminali sapevano di te esattamente quanto tu sapevi di loro. O forse di più. Sostenne lo sguardo di Tan per un paio di secondi, poi tornò al suo budino.

Era sconcertante, e in qualche modo persino eccitante, sapere che da uno di quei due, probabilmente Memet, era partito l'ordine di giustiziare Mickey Clayton e gli altri. Se pensavano che la legge sarebbe stata clemente con loro perché non erano stati gli esecutori materiali degli omicidi, si sbagliavano di grosso. Inoltre, anche se Thorne la pensava diversamente, la versione ufficiale li considerava responsabili anche dell'assassinio di Marcus Moloney. E Nick Tughan avrebbe fatto di tutto per fargliela pagare, di questo Thorne era certo.

Quando alzò di nuovo gli occhi dal suklac,Memet e Tan erano accanto al tavolo.

«Cos'è che vuole?» chiese Memet.

Thorne ingoiò con calma il boccone, poi prese un'altra cucchiaiata di budino, e solo allora rispose alla domanda. «Volevo cenare, cosa che sto ancora facendo. Sarebbe cortese da parte vostra lasciarmi mangiare in pace. Se invece volete farmi irritare sul serio, e preferite che faccia una scenata nel ristorante di vostro padre, continuate pure con questo atteggiamento.» Si voltò verso il fratello minore. «Se credi che quello sia uno sguardo intimidatorio, figliolo, procurati un altro manuale. Così sembri soltanto un ritardato...» Thorne incrociò lo sguardo di Sema e fece il gesto di scrivere nell'aria, per segnalare che voleva il conto.

Memet e Tan si diressero a un tavolo in fondo, dove furono subito raggiunti da un altro uomo. Sema portò loro caffè e biscotti con zucchero a velo, e loro cominciarono a parlare a bassa voce, in un misto di turco e inglese.

Arkan Zarif portò il conto su un piatto. «Desidera un caffè?»

Thorne studiò la ricevuta e tirò fuori il portafoglio. «No, grazie, ora devo proprio andare.»

Zarif accennò con il mento verso il tavolo nell'angolo. «I miei figli diffidano della polizia. Hanno un brutto carattere, ma si tengono fuori dai guai.»

Thorne pensò che la percezione della realtà del vecchio fosse solo di poco meno sballata di quella di suo padre. «E come mai diffidano della polizia?»

Zarif sembrò a disagio. «In Turchia ci sono stati dei problemi. Niente di serio, Memet ha un carattere difficile...»

«È stato per questo che siete venuti in Inghilterra?»

Zarif agitò le mani enfaticamente. «No, come tutti i turchi, volevamo solo pane e lavoro. Per questo siamo venuti. Pane e lavoro.»

Thorne si alzò e prese la giacca. Ringraziò il vecchio, lo salutò e si avviò verso la porta. Pane e lavoro, certo. Ma a volte per procurarseli era più facile rubare quelli degli altri.

Il suo buon senso gli suggeriva di passare davanti al tavolo dei fratelli senza neppure voltarsi a guardarli. Ma una parte della sua mente pensava ancora al significato dei nomi.

Irritante. Difficile da togliere...

I tre uomini seduti interruppero la conversazione al suo passaggio. Il fumo azzurrino delle loro sigarette salì verso le lampade appese al soffitto, come la manifestazione di una dozzina di geni.

Thorne indicò il fumo e disse: «Se fossi in voi, comincerei a esprimere qualche desiderio».

Sorrideva ancora mentre si dirigeva verso la macchina.

Prese il cellulare e compose rapidamente il numero. «Papà? Sono io. Ascolta, ne ho una interessante. Hai una penna? Bene. La domanda è: in quale posto ti trovi, se hai ordinato una prostituta imbottita?»

 

CAPITOLO 15